(massima n. 1)
Il «patteggiamento» è un meccanismo processuale in virtù del quale imputato e P.M. si accordano sulla qualificazione giuridica della condotta contestata, sulla concorrenza di circostanze, sulla comparazione fra le stesse e sull'entità della pena, prescindendo completamente da ogni riconoscimento di responsabilità da parte del primo. Da parte sua, il giudice ha il potere-dovere di controllare l'esattezza dei menzionati aspetti giuridici e la congruità della pena richiesta, e di applicarla dopo aver accertato che non emerge, ictu oculi, una delle cause di non punibilità previste dall'art. 129 c.p.p. Di conseguenza, una volta ottenuta l'applicazione di una determinata pena ex art. 444 c.p.p., l'imputato può impugnare la sentenza solo per inosservanza dell'art. 129 c.p.p. Non può, invece, rimettere in discussione profili oggettivi o soggettivi della fattispecie, come, ad esempio, la finalità, da lui perseguita con la condotta incriminata (e le conseguenti implicazioni di carattere giuridico), perché essi sono tutti coperti dal «patteggiamento». (Nella specie l'imputazione «patteggiata» era relativa a detenzione di stupefacenti per fini di spaccio ed il ricorrente sosteneva invece che la droga era destinata al suo uso personale; la Cassazione, sulla scorta del principio di cui in massima, ha escluso che potesse rimettersi in discussione la finalità della detenzione della droga).