(massima n. 2)
Nella previsione del millantato credito di cui all'art. 346, comma 2, c.p. che integra una figura di reato autonoma rispetto a quella contemplata nel comma 1 dello stesso articolo, l'utilità deve essere carpita con il «pretesto» di dover versare una somma o assicurare un vantaggio al pubblico ufficiale o impiegato per ottenere che egli agisca nel senso desiderato ovvero per compensarlo dell'opera svolta. Se, invece, l'utilità fosse realmente destinata al funzionario infedele, sussisterebbe il diverso reato di corruzione, sempre che di questo ricorrano gli altri estremi. Ne consegue che, mancando il «pretesto» (e cioè la millanteria, tale dovendosi intendere il fatto di rappresentare alla vittima, contrariamente al vero, che sussiste già la disponibilità del funzionario corrotto), la condotta di colui che induce taluno a dargli danaro (o a prometterne) nel sincero proposito che il danaro serve realmente a corrompere il funzionario, non è punibile, arrestandosi l'azione al limite del tentativo di corruzione, attribuibile, peraltro, anche a colui che il danaro ha versato o promesso. (Nella specie la Corte ha ritenuto insussistente sia il millantato credito sia il reato di corruzione, nell'ipotesi in cui il concorrente nel reato contestato come millantato credito ex art. 346, comma 2, c.p., senza essere a conoscenza dell'altrui attività millantatoria, ricava da terzi somme o promessa di danaro nel convincimento certo che esse debbano servire agli altri concorrenti, che così gli hanno fatto credere, al fine di compensare funzionari corrotti per ottenerne i favori).