(massima n. 1)
In tema di concorrenza sleale, la funzione dell'azione inibitoria di cui all'art. 2599 c.c. mette capo ad una pronuncia che, sebbene non suscettibile di attuazione diretta nelle forme dell'esecuzione forzata, può costituire oggetto di giudicato, consentendo di «acquisire» ad un eventuale secondo giudizio di cognizione l'accertamento, compiuto nel primo giudizio, dell'illiceità dell'atto ex art. 2598 c.c.; i principi sui limiti oggettivi di tale giudicato sono rispettati se fra i due comportamenti (quello considerato nella pronuncia inibitoria e quello successivamente realizzato) sussista un'identità di genere e specie, all'interno della quale le eventuali variazioni meramente estrinseche e non caratterizzanti non possono fare escludere l'operatività della pronuncia medesima; ne consegue che se oggetto della seconda azione non è l'accertamento dell'adempimento del giudicato formatosi sulla prima pronuncia inibitoria, bensì la verifica di nuovi comportamenti pubblicitari in funzione anticoncorrenziale, la predetta identità non sussiste, né dunque può essere invocato alcun giudicato. (Fattispecie decisa con riguardo ad una prima pronuncia che inibiva ad una società l'uso di una certa denominazione nella pubblicità se non previa adozione di particolari accorgimenti, oggetto di azione ritenuta dalla S.C. diversa rispetto alla successiva azione con cui veniva domandata sia l'inibizione totale all'utilizzo della medesima denominazione altresì nella ragione sociale del concorrente convenuto sia l'accertamento dell'usurpazione del marchio).