(massima n. 1)
Il patto di non concorrenza, concluso ai sensi dell'art. 2596 c.c. e destinato a fissare una limitazione all'attività contrattuale verso una serie indeterminata di soggetti, tra cui accidentalmente anche la P.A., non integra di per sé il reato di turbata libertà degli incanti, di cui all'art. 353 c.p. - nella parte in cui esso prevede un'intesa, più o meno clandestina, che ha come finalità esclusiva l'impedimento o la turbativa della gara o l'allontanamento degli offerenti ed il conseguente dolo, cioè la volontà consapevole di determinare uno dei predetti risultati con quei mezzi - né, quindi, appare viziato da nullità virtuale, ai sensi dell'art. 1418 c.c.; non è invero ammissibile, già per la sua previsione come obbligo legale accedente all'alienazione d'azienda (ex art. 2557 c.c.) ovvero al suo affitto (ex art. 2562 c.c.), ipotizzarne "a priori" la sua contrarietà a norme imperative in caso di contingente applicabilità a forme di partecipazione ad incanti pubblici, il che, in caso di impresa attiva esclusivamente o in via prevalente nel settore dei contratti pubblici, imporrebbe, di fatto, la sua disapplicazione.