(massima n. 1)
L'atto al quale l'art. 2283 c.c. dichiara applicabili le norme sulla divisione dei beni comuni non è l'atto di scioglimento della società bensì quello con cui, verificatosi per qualsiasi causa lo scioglimento del rapporto sociale e compiuta la liquidazione del patrimonio della società con un residuo attivo, i soci che si siano venuti così a trovare in uno stato di comunione sui beni residui provvedano alla ripartizione di tali beni fra loro. Il contratto con il quale uno dei soci attribuisce ad un altro socio la sua quota sociale, sia che ne consegua lo scioglimento del rapporto soltanto nei confronti del socio cedente, sia che ne consegua il totale scioglimento della società, non è mai qualificabile come contratto di divisione, neppure se con esso venga attuato anche il trasferimento di quote di beni conferiti alla società o acquistati da questa nel corso del rapporto. Contenuto di tale contratto non è infatti la trasformazione di una quota di comunione in porzione di titolarità singola, bensì l'attribuzione ad altro socio della titolarità della quota del socio cedente; controprestazione di tale attribuzione non è un corrispettivo corrispondente al valore di una porzione di beni comuni, bensì il versamento di una somma corrispondente al valore della quota di patrimonio sociale alla data dello scioglimento. (Nell'enunciare il principio di cui in massima, la S.C. ha ritenuto esatta la decisione dei giudici del merito, che avevano escluso l'applicabilità del rimedio della rescissione per lesione oltre il quarto — propria del solo contratto di divisione — ad un contratto di scioglimento di società).