Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale aveva accolto la domanda proposta da un cittadino nei confronti del Comune, volta ad ottenere il risarcimento dei danni subiti “in conseguenza di una caduta per inciampo in una pedana di ferro di copertura di fognatura urbana”.
Il Comune proponeva appello, il quale veniva accolto, dal momento che la Corte d’Appello non riteneva sufficientemente provato il fatto della caduta sul tombino, risultando inattendibile la testimonianza resa da un teste, fratello del danneggiato, che si era dichiarato teste oculare ma le cui dichiarazioni apparivano incongruenti e non supportate documentalmente.
Ritenendo tale decisione ingiusta, il danneggiato proponeva ricorso in Cassazione.
Il ricorrente, in particolare, rilevava come vi fosse un contrasto tra “quanto era stato evidenziato dal giudice di prime cure e quanto dichiarato - senza spendere parola per confutare in modo specifico la prima sentenza al riguardo - dal giudice di secondo grado”.
Osservava, il ricorrente, infatti, come il Tribunale, in primo grado, avesse dato atto della produzione di una certificazione rilasciata dal Pronto soccorso, la quale attestava che il danneggiato si era recato al Pronto Soccorso riferendo di essere caduto inciampando su una botola di fognatura sporgente, a conferma delle dichiarazioni testimoniali successivamente rese.
Il Giudice d’appello, invece, aveva affermato che il danneggiato non aveva allegato alcun referto di Pronto Soccorso attestante l’esecuzione di una radiografia, con la conseguenza che le dichiarazioni testimoniali rese dal fratello del danneggiato non trovavano riscontro documentale.
Sul punto, la Cassazione osserva come si tratti di una palese “illogicità, dal momento che non può configurarsi come assenza della prova documentale di "alcunché" l’inesistenza di un referto del pronto soccorso nel caso in cui questo non attesti una radiografia”.
Inoltre, secondo la Corte, non si comprendeva perché la Corte d’Appello avesse data “per scontata la necessità di una completa conferma documentale della testimonianza di [[..]], come se il vincolo di parentela automaticamente dovesse inficiare l’attendibilità del teste e rendere necessari riscontri esterni”.
Si trattava, infatti, di un’impostazione erronea, dal momento che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1109 del 20 gennaio 2006, aveva già precisato che “non sussiste con riguardo alle deposizioni rese dai parenti o dal coniuge di una delle parti alcun principio di necessaria inattendibilità connessa al vincolo di parentela o coniugale, siccome privo di riscontri nell’attuale ordinamento, considerato che, venuto meno il divieto di testimoniare previsto dall’art. 247 c.p.c. per effetto della sentenza della Corte Cost. n. 248 del 1974, l’attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli non può essere esclusa aprioristicamente, in difetto di ulteriori elementi in base ai quali il giudice del merito reputi inficiarne la credibilità, per la sola circostanza dell’esistenza dei detti vincoli con le parti".
La Cassazione, pertanto, provvedeva ad annullare la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’Appello, affinchè la stessa decidesse tenendo conto dei principi sopra enunciati.