Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Potenza aveva dichiarato l'imputato colpevole del reato ascrittogli. Avverso tale sentenza, veniva proposto ricorso in Cassazione.
Secondo il ricorrente, in particolare, la motivazione della sentenza sarebbe stata “illogica”, in quanto il giudice non avrebbe tenuto conto della “separazione di fatto” intervenuta con la compagna. Inoltre, “per quanto riguarda gli elementi descrittivi del menage familiare”, quelli desunti dall'unico intervento della polizia e i due referti medici non erano rappresentativi “di un clima di violenza” e la testimonianza della suocera era “chiaramente di parte”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso.
Secondo la Cassazione, infatti, la Corte d’appello aveva “valutato le obiezioni dell'appellante”, ritenendo, del tutto motivatamente, “che la proposizione di denuncie a querele in relazione, dapprima a singoli episodi, e successivamente alla vicenda complessiva svoltasi nel corso del rapporto coniugale”, non costituisse di per sè “ragione di dubbio sull'attendibilità della testimonianza da lei resa”.
La sentenza, inoltre, avrebbe adeguatamente preso in considerazione “anche la questione dei conti bancari, rilevando che l'imputato li intestava alla moglie, della quale a volte falsificava anche la sua firma sugli assegni, in quanto era interdetto all'emissione dei predetti titoli”.
A fronte di tale coerente motivazione, il ricorrente, secondo la Cassazione, muoveva solamente delle “censure in fatto, peraltro già smentite dagli accertamenti dei giudici del merito e, quindi, manifestamente infondate”.
Per quanto concerne, inoltre, la questione relativa all’attendibilità della testimonianza della suocera dell’imputato, la Cassazione non riteneva che tale inattendibilità potesse derivare dal solo fatto della rottura dei rapporti tra l’imputato e la figlia della teste, con la conseguenza che doveva ribadirsi il valore probatorio della stessa.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto, confermando la sentenza di secondo grado e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.