La Cassazione, con la recente ordinanza 11730/2024, ha statuito che ogni lavoratore è sempre titolare dell’interesse ad agire in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro per ottenere la restituzione dei contributi dallo stesso non pagati.
Secondo la Suprema Corte infatti ogni lavoratore, in forza del diritto all’integrità della propria posizione contributiva, deve poter agire contro il datore di lavoro, a prescindere dalla prova di aver subito una lesione della prestazione previdenziale contributiva e senza la necessità di integrare il contraddittorio con una chiamata in causa dell’Inps.
Il caso che ha determinato la suddetta pronuncia della Cassazione riguardava la posizione di un lavoratore, socio e dipendente di una cooperativa, il quale chiedeva al Tribunale il riconoscimento delle differenze retributive da lui maturate per aver svolto attività lavorativa oltre le ore previste dal proprio contratto.
In conseguenza di ciò, il lavoratore richiedeva anche l’adeguamento della propria posizione contributiva sotto il profilo previdenziale.
La Corte d’Appello rigettava la domanda del lavoratore, ritenendo che lo stesso non avesse alcuna legittimazione ad agire, poiché non sussisteva alcun pregiudizio concreto ed attuale alla sua posizione previdenziale. Egli infatti avrebbe dovuto provare in primo luogo l’effettivo svolgimento di un’attività lavorativa a tempo pieno e, inoltre, che l’irregolarità nei versamenti determinava una menomazione del trattamento pensionistico a lui spettante.
Il lavoratore quindi presentava ricorso in Cassazione.
Ebbene, con l’ordinanza sopra richiamata, gli ermellini accolgono il ricorso del lavoratore e cassano con rinvio la sentenza della Corte d’Appello.
Secondo i giudici infatti sussiste un orientamento piuttosto consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in forza del quale il lavoratore è titolare del diritto di agire contro il proprio datore di lavoro, al fine di ottenere l’accertamento e la regolarizzazione della propria posizione contributiva, qualora appunto il datore di lavoro abbia omesso di effettuare regolarmente alcuni pagamenti. Tale diritto spetta nei confronti del dipendente a prescindere dal verificarsi di qualsiasi danno alla propria posizione previdenziale.
Quindi, il lavoratore, ben prima del raggiungimento dell’età pensionabile, può agire a tutela della propria posizione contributiva, in quanto, come detto, titolare del diritto all’integrità della stessa, la quale può subire un pregiudizio in caso di omissione contributiva.
Sussiste quindi in capo al lavoratore un interesse qualificato a tutelare la propria posizione previdenziale, in forza anche della previsione costituzionale di cui all’art. 38 Cost., secondo cui “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Ebbene, quanto ai mezzi di tutela previsti, la Suprema Corte individua due strumenti alternativi al fine di fornire tutela al lavoratore.
Quest’ultimo, infatti, può in primo luogo esperire una normale azione di condanna al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 2116 c.c.
La norma citata, infatti, prevede che le prestazioni inerenti alla previdenza obbligatoria, indicate dall’art. 2114 c.c., sono dovute al lavoratore anche nei casi in cui il datore di lavoro abbia omesso di versare regolarmente i contributi. Ne consegue che, se - a causa degli irregolari versamenti contributivi - gli istituti di previdenza (ad es. Inps) non sono in grado di corrispondere, totalmente o parzialmente, le prestazioni previste, a risponderne è proprio il datore di lavoro, a causa della sua condotta omissiva.
Alternativamente, la Cassazione individua quale strumento di tutela un’azione di mero accertamento dell’omissione contributiva, la quale potrebbe dar luogo ad un comportamento potenzialmente dannoso.
Con tale pronuncia quindi la Suprema Corte ha ribadito un importante principio di diritto, particolarmente favorevole ai lavoratori, individuando altresì analiticamente gli strumenti di tutela messi a disposizione degli stessi.
Secondo la Suprema Corte infatti ogni lavoratore, in forza del diritto all’integrità della propria posizione contributiva, deve poter agire contro il datore di lavoro, a prescindere dalla prova di aver subito una lesione della prestazione previdenziale contributiva e senza la necessità di integrare il contraddittorio con una chiamata in causa dell’Inps.
Il caso che ha determinato la suddetta pronuncia della Cassazione riguardava la posizione di un lavoratore, socio e dipendente di una cooperativa, il quale chiedeva al Tribunale il riconoscimento delle differenze retributive da lui maturate per aver svolto attività lavorativa oltre le ore previste dal proprio contratto.
In conseguenza di ciò, il lavoratore richiedeva anche l’adeguamento della propria posizione contributiva sotto il profilo previdenziale.
La Corte d’Appello rigettava la domanda del lavoratore, ritenendo che lo stesso non avesse alcuna legittimazione ad agire, poiché non sussisteva alcun pregiudizio concreto ed attuale alla sua posizione previdenziale. Egli infatti avrebbe dovuto provare in primo luogo l’effettivo svolgimento di un’attività lavorativa a tempo pieno e, inoltre, che l’irregolarità nei versamenti determinava una menomazione del trattamento pensionistico a lui spettante.
Il lavoratore quindi presentava ricorso in Cassazione.
Ebbene, con l’ordinanza sopra richiamata, gli ermellini accolgono il ricorso del lavoratore e cassano con rinvio la sentenza della Corte d’Appello.
Secondo i giudici infatti sussiste un orientamento piuttosto consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in forza del quale il lavoratore è titolare del diritto di agire contro il proprio datore di lavoro, al fine di ottenere l’accertamento e la regolarizzazione della propria posizione contributiva, qualora appunto il datore di lavoro abbia omesso di effettuare regolarmente alcuni pagamenti. Tale diritto spetta nei confronti del dipendente a prescindere dal verificarsi di qualsiasi danno alla propria posizione previdenziale.
Quindi, il lavoratore, ben prima del raggiungimento dell’età pensionabile, può agire a tutela della propria posizione contributiva, in quanto, come detto, titolare del diritto all’integrità della stessa, la quale può subire un pregiudizio in caso di omissione contributiva.
Sussiste quindi in capo al lavoratore un interesse qualificato a tutelare la propria posizione previdenziale, in forza anche della previsione costituzionale di cui all’art. 38 Cost., secondo cui “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Ebbene, quanto ai mezzi di tutela previsti, la Suprema Corte individua due strumenti alternativi al fine di fornire tutela al lavoratore.
Quest’ultimo, infatti, può in primo luogo esperire una normale azione di condanna al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 2116 c.c.
La norma citata, infatti, prevede che le prestazioni inerenti alla previdenza obbligatoria, indicate dall’art. 2114 c.c., sono dovute al lavoratore anche nei casi in cui il datore di lavoro abbia omesso di versare regolarmente i contributi. Ne consegue che, se - a causa degli irregolari versamenti contributivi - gli istituti di previdenza (ad es. Inps) non sono in grado di corrispondere, totalmente o parzialmente, le prestazioni previste, a risponderne è proprio il datore di lavoro, a causa della sua condotta omissiva.
Alternativamente, la Cassazione individua quale strumento di tutela un’azione di mero accertamento dell’omissione contributiva, la quale potrebbe dar luogo ad un comportamento potenzialmente dannoso.
Con tale pronuncia quindi la Suprema Corte ha ribadito un importante principio di diritto, particolarmente favorevole ai lavoratori, individuando altresì analiticamente gli strumenti di tutela messi a disposizione degli stessi.