La questione si era posta a seguito del ricorso di un soggetto avverso la sentenza del G.u.p. di Palermo, che lo aveva ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 660 c.p. per avere arrecato disturbo ad un agente di Polizia municipale inviandogli numerosi messaggi a mezzo WhatsApp.
Nello specifico – ma limitatamente a quanto qui di interesse – il ricorrente si doleva:
a) del fatto che la condotta tipizzata dall’art. 660 c.p. comprende, tra le modalità di possibile realizzazione del reato, la comunicazione telefonica ma non anche l’utilizzo delle attuali app di messaggistica istantanea come WhatsApp;
b) del fatto che le comunicazioni ripetute ed insistenti inviate a mezzo WhatsApp non hanno carattere invasivo poiché il destinatario ha la facoltà di bloccare l’utente e impedire in tal modo la ricezione dei messaggi, senza dover spegnere l’apparecchio e senza, pertanto, dover sacrificare la propria libertà di comunicazione.
Alla luce di tali problematiche sollevate dal ricorrente, la Suprema Corte ha fornito interessanti chiarimenti.
Innanzitutto, circa la riconducibilità del messaggio WhatsApp alla comunicazione attuata “con il mezzo del telefono” tipizzata dall’art. 660 c.p., il Collegio si è espresso favorevolmente, disattendendo la tesi del ricorrente. L’utilizzo di messaggistica di ogni genere è dunque da considerare oggi una delle possibili modalità di realizzazione della molestia.
Nell’affermare ciò, la Corte ha infatti richiamato il principio di diritto, già consolidato nella giurisprudenza di legittimità, per cui nella generica dizione di cui all’art. 660 c.p. ‘con il mezzo del telefono’ sono compresi anche la molestia e il disturbo recati con altri analoghi mezzi di comunicazione a distanza.
Ciò che rileva è infatti il carattere invasivo della comunicazione non vocale, che realizza una diretta e immediata intrusione nella sfera della vittima. E tale carattere – sottolinea la Suprema Corte – è proprio anche delle comunicazioni a mezzo Whatsapp, che danno luogo da un lato alla percezione immediata da parte della vittima del segnale acustico all’arrivo del messaggio e, dall’altro, dalla comparsa totale o parziale dell’anteprima del testo del messaggio sulla schermata di blocco del cellulare.
A nulla rileva, inoltre, la possibilità di bloccare l’utente: il carattere invasivo della comunicazione non è infatti escluso dalla possibilità del destinatario di evitare la ricezione di ulteriori messaggi indesiderati da parte di un determinato utente, poiché tra i presupposti del reato in oggetto non vi è quello della reiterazione. A questo proposito, invero, la Suprema Corte ricorda che “il reato di molestia o disturbo alle persone non ha natura necessariamente abituale e non pretende sempre e comunque una reiterazione di comportamenti intrusivi e sgraditi nella vita altrui, sicchè può essere realizzato anche con una sola azione”.
Essendo dunque sufficiente che si realizzi una sola interferenza indesiderata che alteri fastidiosamente lo stato psichico della vittima, la Cassazione esclude la rilevanza della possibilità di interrompere l’azione perturbatrice attuata via WhatsApp o di prevenirne la reiterazione mediante l’utilizzo della funzione “blocca contatto”.