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Condannati due imputati che molestavano e schernivano il collega

Condannati due imputati che molestavano e schernivano il collega
Costituisce reato "divertirsi" molestando pesantemente un collega e approfittando della sua condizione di fragilità mentale e deficit cognitivo.
La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 49573 del 22 novembre 2016, ha pronunciato una sentenza curiosa circa le molestie sul luogo di lavoro (art. 660 del c.p.).

Nel caso esaminato dalla Cassazione, due imputati erano stati condannati, sia in primo che in secondo grado, “perché, in concorso tra loro, per petulanza o altro biasimevole motivo, avevano recato molestia e disturbo a F.M., all'epoca ventiquattrenne, borsista presso il vivaio forestale (…), dove prestavano attività lavorativa anche gli imputati, invitandolo a compiere atti di esibizione sessuale, come abbassarsi i pantaloni e mostrare le parti intime, e contattandolo sulla utenza cellulare (…) per appuntamenti a sfondo sessuale simulando di essere una donna, apostrofandolo altresì con l'epiteto di "squilibrio"”.

Tali comportamenti, secondo i Giudici dei primi due gradi di giudizio, “erano esenti da profili di dolo di violenza sessuale e configuravano, piuttosto, gesti goliardici e di scherno, da ricondurre al contestato reato di molestia” nei confronti dell’imputato, il quale era “affetto da deficit cognitivo e da problemi di alcoolismo, seguito dai servizi sociali”.

In considerazione delle condizioni soggettive della vittima del reato, peraltro, la condotta degli imputati doveva considerarsi particolarmente grave, dal momento che gli stessi avevano “approfittato delle note condizioni di fragilità dellapersona offesa, rendendola bersaglio di insulti, ironie e vessazioni di vario genere sul posto di lavoro e per telefono”.

Avverso la sentenza di secondo grado, gli imputati proponevano ricorso per Cassazione, evidenziando come la Corte d’appello avesse “acriticamente accreditato la versione della persona offesa, sottolineandone la fragilità e la vulnerabilità, ben nota ai colleghi nel contesto lavorativo dove erano prevalentemente avvenute le molestie”.

Infatti, le persone sentite come testimoni avrebbero riferito solo quanto loro raccontato dalla stessa persona offesa, la cui attendibilità non era stata adeguatamente verificata.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dai ricorrenti, rigettando il relativo ricorso.

Nel caso in esame, infatti, la Corte d’appello aveva correttamente vagliato “l'intrinseca affidabilità della versione della persona offesa, nella pur documentata fragilità delle sue condizioni psico-fisiche”, essendo stati “rilevati e apprezzati anche altri elementi di prova che ne hanno confermato l'attendibilità”.

Secondo la Cassazione, inoltre, “ulteriore avallo della versione della persona offesa è stato ragionevolmente tratto dalla testimonianza dell'assistente sociale”, che era intervenuta a tutela della vittima, dopo aver raccolto la denuncia di quanto accaduto di quanto accadeva all’interno del vivaio.

La Corte d’appello, peraltro, aveva anche tenuto in considerazione le testimonianze ritenute a favore degli imputati, rilevandone “la inidoneità a contraddire la prova a carico” ed essendo le medesime provenienti da persone che non avevano assistito agli episodi di molestia.

La decisione della Corte d’Appello, dunque, risultava “completa, corretta e coerente”, con la conseguenza che il ricorso proposto dai ricorrenti doveva essere rigettato.


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