La vicenda riguarda una coppia trovata in
possesso, presso l'
abitazione nella quale i due convivevano, che era di
proprietà della donna, di un grosso quantitativo di
marijuana e di piante di Cannabis Indica.
Accusati del
reato di cui all’articolo
73 del testo unico in materia di stupefacenti (Dpr n. 309/1990), in concorso tra loro, si erano difesi sostenendo che le sostanze trovate erano finalizzate ad un
consumo personale dell’uomo, data l’assenza, all’interno dell’abitazione, sia di contanti che di buste per il loro confezionamento; inoltre,
non vi era prova di un effettivo contributo da parte della donna alla coltivazione e custodia delle sostanze e pertanto, per quanto la riguardava, non poteva trattarsi di concorso nel reato.
Nonostante le loro difese, la coppia veniva condannata dal
Tribunale.
Proposto
ricorso avverso la decisione di
primo grado, la Corte d'
appello di Roma, con
sentenza n. 6346/2019, ha confermato quanto deciso in merito alla posizione dell’uomo, dal momento che il quantitativo di stupefacenti risultava
sproporzionato rispetto alla finalità di uso personale.
Per quanto riguarda la donna, invece, la sua
condotta era da considerare come una “
connivenza non punibile”, ossia una situazione nella quale un soggetto è a conoscenza della commissione di un reato da parte di un altro soggetto, ma non contribuisce in alcun modo alla sua realizzazione, né sotto il profilo
causale, né
psicologico.
Dunque, secondo i giudici, nel caso in esame, non si è in presenza di un concorso nel reato, in quanto, proprio come era già stato affermato dalla Cassazione con riferimento ai reati in materia di stupefacenti,
“ricorre il concorso nel reato nel caso in cui si offra un consapevole apporto - morale o materiale - all'altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso del concorrente, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell'evento illecito”.
Nel caso di specie, a parere della Corte, l'accusa non era stata in grado di spiegare in modo persuasivo il tipo di apporto che la donna poteva aver dato al compagno nella consumazione del reato. I giudici hanno infatti sottolineato che non bisogna confondere la titolarità dell'immobile in cui sono stati rinvenuti gli stupefacenti con un’effettiva condotta di partecipazione al reato.