Il caso esaminato dalla Cassazione trae origine dalla appellata sentenza dalla Corte d’appello di Salerno, in parziale riforma della sentenza di primo grado, nella quale si riconosce la penale responsabilità dell'imputato, con riferimento al reato di cui all’art. 73 del T.U. stupefacenti, per aver coltivato due piante di marijuana e per aver detenuto, ai fini di spaccio, n. 28,8 gr. di tale sostanza.
Avverso detta sentenza, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando l’erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicità della sentenza d’appello, poichè, a detta del ricorrente, la Corte avrebbe “omesso di verificare l’offensività della condotta ed in particolare l’efficacia drogante della marijuana coltivata, in controtendenza rispetto all’orientamento giurisprudenziale più recente della stessa Cassazione, che prevede l'obbligo in capo al giudice di merito di accertare, nella ipotesi della cd. “coltivazione domestica” di marijuana, la portata offensiva della droga”.
La Corte di Cassazione riteneva il ricorso solo parzialmente fondato e per motivi, inoltre, diversi da quelli prospettati dal ricorrente.
Infatti, la Cassazione rilevava, in particolare, come le censure in merito all’erronea applicazione della legge penale e all’illogicità della motivazione fossero infondate.
La Suprema Corte, infatti, con la sentenza n. 44136 del 27 ottobre 2015, aveva già avuto modo di precisare che “a proposito della coltivazione di marijuana e della offensività della condotta, ai fini della sua punibilità e laddove la coltivazione di piante preveda l’estraibilità di sostanze stupefacenti, l’offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente’”.
La Cassazione non negava che vi fosse un altro indirizzo giurisprudenziale che facesse leva “sulla necessità da parte del giudice di verificare in concreto l’offensività della condotta da intendersi come prova della effettiva ed attuale capacità a produrre un effetto drogante rilevabile nella immediatezza, a prescindere dall’accertamento della conformità della pianta al tipo botanico previsto e della sua attitudine futura a giungere a maturazione e produrre sostanza stupefacente”, ma, semplicemente, non riteneva di doversi uniformare alla medesima come prospettato dal ricorrente.
Pertanto, secondo i giudici di Piazza Cavour, doveva ribadirsi il principio di diritto in base al quale “costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale”.
Dunque, secondo la Corte, il giudice d’appello aveva correttamente argomentato ed interpretato la norma, ritenendo penalmente rilevante la condotta posta in essere dall’imputato, “tenuto conto delle caratteristiche delle due piante sequestrate, ed ancora, del possesso da parte dell’imputato non solo delle foglie essiccate, ma delle loro modalità di occultamento e di strumenti atti al confezionamento di droga da cedere a terzi apparendo del tutto inverosimile l’esistenza di strumenti atti a preparare una sostanza del tutto priva di effetti psicotropi”.
Tuttavia, la decisione di secondo grado andava ugualmente annullata, a detta della Corte, per quanto concerne il “trattamento sanzionatorio”.
Infatti, la sentenza impugnata era stata emessa “prima dell’entrata in vigore della L. n. 79 del 2014, che ha implementato il mite trattamento sanzionatorio già previsto dalla L. 10/14, modificando in senso ancor più favorevole all’imputato le pene edittali”.
Così, la Cassazione si trovava ad evidenziare come, per il principio per cui all’imputato va sempre applicata la legge a lui più favorevole (art. 2 del c.p.), il giudice d’appello avrebbe dovuto procedere ad una nuova determinazione della pena.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione annullava la sentenza di secondo grado limitatamente al trattamento sanzionatorio, rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè provvedesse alla rideterminazione della pena.