La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 48011 del 20 novembre 2014, ha fornito alcune interessanti precisazioni in tema di “concorso in acquisto di sostanze stupefacenti”, di cui agli artt. 110 codice penale e 73 D.P.R. n. 309 del 1990.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva condannato un imputato per il suddetto reato, in quanto il medesimo aveva prestato del denaro ad un amico, agevolando e, anzi, determinando l’acquisto degli stupefacenti.
Ritenendo la sentenza di condanna ingiusta, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, osservando come la Corte d’appello avesse fondato la propria decisione in base a delle mere congetture, “senza considerare il comportamento tenuto dall'imputato alla presenza dei Carabinieri e il mancato rinvenimento di sostanza stupefacente indosso”.
Secondo il ricorrente, inoltre, le risultanze istruttorie “avrebbero dovuto far sorgere più di un dubbio sulla sussistenza della fattispecie criminosa”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso.
La Cassazione, innanzitutto, ricordava come il concorso nel reato presuppone un “contributo partecipativo positivo - morale o materiale - all'altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso del concorrente”.
In tal senso, infatti, si è pronunciata anche la medesima Corte di Cassazione, con la sentenza n. n. 4055 del 12/12/2013.
Ebbene, nel caso di specie, la Corte d’appello aveva correttamente “ravvisato il concorso nel reato valorizzando il dato (…) della conoscenza delle intenzioni del compagno di viaggio (rifornirsi di droga) e del prestito del danaro”.
Quest’ultima circostanza, infatti, secondo la Corte d’appello aveva agevolato ed, anzi, era stata “determinante per l'acquisto delle pasticche stesse", in quanto “senza la somma, sia pure data a titolo di prestito, il cui uso il mutuante ben sapeva, il reato stesso non si sarebbe potuto commettere".
Pertanto, secondo la Corte di Cassazione, la motivazione del giudice di secondo grado era del tutto adeguata e logica.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.