Vediamo perché e come evitare di perdere tale assegno.
L’Assegno di Inclusione (c.d. ADI), introdotto dal Decreto lavoro 2023 e operativo 1° gennaio del 2024, è una misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce più deboli, che prevede percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro.
Tuttavia, se non sussistono problemi per i pagamenti relativi al mese di maggio, la situazione è ben diversa quanto al mese di giugno. Infatti, a rischio ci sono migliaia di famiglie italiane che potrebbero non ricevere l’assegno di inclusione nel mese prossimo. Ciò in particolare riguarda i nuclei familiari che hanno presentato la domanda tra il 18 dicembre del 2023 e la fine di gennaio del 2024, la cui richiesta però non sia stata ancora processata da parte dei rispettivi Comuni di appartenenza.
Il problema nasce dalle disposizioni contenute nel d.l. 48/2023, il quale presuppone che, ai fini del riconoscimento dell’ADI, la famiglia richiedente, dopo aver firmato il Patto di attivazione digitale, deve recarsi presso gli uffici dei servizi sociali del Comune di appartenenza, al fine di sottoporsi alla valutazione multidimensionale del nucleo. In quella stessa sede, avverrà la firma del Patto di inclusione.
Tale procedura dev’essere necessariamente espletata nel termine di 120 giorni dalla firma del Patto di attivazione digitale. In caso contrario, saranno sospesi i pagamenti dell’assegno di inclusione. È bene precisare, però, che la sospensione dell’Assegno di inclusione è ben diversa dalla decadenza: in tal caso, infatti, i pagamenti verranno solo “congelati” in attesa dell’appuntamento con i servizi sociali.
Il problema, quindi, riguarda tutte quelle famiglie che hanno presentato la propria istanza tra dicembre 2023 e fine gennaio 2024 e che non si siano ancora recate presso gli uffici dei servizi sociali del Comune per la valutazione multidimensionale. Infatti, nel termine di 120 giorni dalla sottoscrizione del Patto di attivazione digitale, deve obbligatoriamente avvenire il primo incontro presso i servizi sociali, anche in mancanza dell’appuntamento: è altamente probabile che, a causa del numero elevato di richieste, il Comune sia in ritardo nel convocare le famiglie, o che non riesca a mettersi in contatto con alcuni richiedenti, poiché non dispone di contatti aggiornati.
In questi casi, la responsabilità passa direttamente al nucleo familiare, che deve necessariamente recarsi presso gli uffici incaricati del Comune di residenza, anche in assenza di convocazione.
Pertanto, coloro i quali sono prossimi alla scadenza dei 120 giorni dovrebbero, innanzitutto, mettersi in contatto con il proprio Comune, per chiedere ulteriori informazioni. In un secondo momento, qualora siano ancora in tempo e il termine non sia ancora scaduto, dovrebbero recarsi presso gli uffici addetti per la valutazione multidimensionale.
C’è però una soluzione al problema. Infatti, a causa dei notevoli ritardi riscontrati nelle prime fasi da parte dei Comuni, il Ministero del lavoro, con la nota n. 6062 del 28 marzo 2024, ha stabilito una deroga rispetto alla disciplina contenuta nel d.l. 48/2023. In particolare, secondo la nota ministeriale, per le domande inviate entro il 29 febbraio 2024, il termine dei 120 giorni si calcola non più dal giorno della sottoscrizione del Patto di attivazione digitale, bensì dal momento in cui il flusso delle domande Adi viene inviato sulla Piattaforma per la gestione dei Patti per l’inclusione sociale (GePI).
Ebbene, più analiticamente, il termine di 120 giorni decorre a partire dal 26 gennaio. Pertanto, per coloro che hanno presentato per primi la domanda, il termine è già scaduto in data 25 maggio, mentre per gli altri richiedenti c’è ancora tempo per regolarizzare la propria posizione recandosi presso i servizi sociali del proprio Comune.
In particolare, la ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone ha dichiarato, durante il Festival dell’Economia di Trento, che per il mese di maggio a beneficiare dell’Adi saranno ben 672.926 nuclei familiari.
Tuttavia, secondo alcuni dati non ufficiali, le famiglie le cui pratiche sono state prese in carico dai Comuni sono poco più di 300 mila.