Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, resa dal Tribunale della stessa città, aveva confermato la condanna di un imputato per il delitto di cui all’art. 73, comma 5 del D.P.R. n. 309 del 1990 (Testo unico sugli stupefacenti), “relativo alla cessione di grammi 1,6 di fungo allucinogeno contenente psilocibina, del quale deteneva un ulteriore grammo presso la propria abitazione”, concedendo, tuttavia, all’imputato le attenuanti generiche (art. 62 bis bis c.p.).
Il ricorrente, ritenendo la decisione ingiusta, decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, infatti, la condanna era stata ingiusta, dal momento che non era stata accertata la “quantità di principio attivo presente nella sostanza stupefacente rinvenuta e, conseguentemente, dell'effetto drogante di tale sostanza”.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Osservava la Cassazione, in particolare, che se “per stabilire l'effettiva natura stupefacente di una determinata sostanza è sufficiente il narcotest, senza che sia indispensabile far ricorso ad una perizia chimica tossicologica, tale ultimo accertamento tecnico è necessario, invece, ove occorra valutare l'entità o l'indice dei principi attivi contenuti nei reperti (…) e il giudice non possa attingere tale conoscenza anche da altre fonti di prova acquisite agli atti”.
Nel caso di specie, invece, a fronte delle contestazioni dell’imputato, che aveva evidenziato “l'inoffensività della condotta per difetto di effettiva capacità drogante della sostanza”, la Corte d’appello aveva “dedotto tale capacità drogante sulla base di una descrizione riportata nella informativa dei Carabinieri che si riferisce in astratto al tipo di sostanza e non alla effettiva e concreta idoneità a indurre una modificazione dell'assetto neuropsichico dell'utilizzatore della, invero non rilevante, quantità di sostanza ceduta a terzi e detenuta dal ricorrente”.
Secondo la Cassazione, dunque, si rendeva necessario annullare la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima procedesse ad un nuovo giudizio, tenendo conto dei principi affermati dalla Corte di Cassazione.