La questione sottoposta al vaglio dei Giudici di legittimità era nata in seguito alla decisione di un lavoratore di impugnare il licenziamento intimatogli dalla società datrice di lavoro.
La Corte d’Appello, in riforma della decisione resa, in primo grado, dal Tribunale, dichiarava la legittimità del licenziamento intimato al ricorrente, condannando quest’ultimo alla rifusione delle spese di lite.
I Giudici di secondo grado, in particolare, sottolineavano la correttezza dell’operato della società datrice di lavoro sia in relazione alla rilevanza dell’addebito contestato al lavoratore, ritenuto idoneo a far venir meno il vincolo fiduciario esistente tra le parti, sia in ordine alla congruità della contestazione, nonché la pari esattezza del termine a difesa concesso al lavoratore e della sospensione cautelativa dal lavoro operata nei suoi confronti.
Rimasto soccombente, all’esito del giudizio d’appello, il lavoratore decideva di ricorrere dinanzi alla Corte di Cassazione eccependo, in particolare, la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti collettivi nazionali di lavoro in relazione all’art. 225 del CCNL di settore, dell’art. 649 del c.p.p. e dell’art. 39 del c.p.c. A suo avviso, infatti, i Giudici di merito avevano errato sia nel non aver riconosciuto la natura disciplinare della sanzione della sospensione dal lavoro, irrogata nei suoi confronti, sia nel non aver applicato il principio del ne bis in idem, in relazione all’irrogazione di due sanzioni per uno stesso fatto. Di conseguenza, secondo il ricorrente, la Corte territoriale aveva, altresì, errato nel non aver dichiarato l’irregolarità della procedura disciplinare posta in essere, ai sensi dell’art. 7 dello st. lav.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso.
Gli Ermellini hanno, innanzitutto, evidenziato come l’applicazione del principio di consunzione, in cui si compendia la massima del “ne bis in idem”, ricavabile dalla lettera dell’art. 649 del c.p.p., al procedimento disciplinare privatistico, abbia portato la costante giurisprudenza di legittimità ad affermare che “il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare, una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva” (Cass. Lav., n. 17912/2016; Cass. Lav., n. 22388/2014; Cass. Lav., n. 3039/1996).
In particolare, la Cassazione ha da sempre confermato il divieto di esercitare due volte il potere disciplinare per uno stesso fatto, sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica (cfr. ex multis Cass. Lav., n. 26815/2018; Cass. Lav., n. 3855/2017).
In materia si è, peraltro, consolidato il principio di diritto per cui “l’avvenuta irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per condotte di rilevanza penale esclude che, anche a seguito del passaggio in giudicato della sanzione penale di condanna per i medesimi fatti, possa essere intimato il licenziamento disciplinare, non essendo consentito (in linea con quanto affermato dal Corte EDU, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia, che ha affermato la portata generale, estesa a tutti i rami del diritto, del principio del “ne bis in idem”), per il principio di consunzione del potere disciplinare, che un’identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica” (Cass. Lav., n. 28927/2019; Cass. Lav., n. 24752/2017).
Alla luce di ciò, dunque, in tema di licenziamento, qualora il datore di lavoro abbia esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro, in relazione a determinati fatti, complessivamente considerati, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, singolarmente considerati, il medesimo potere, ormai consumato anche sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva (Cass. Lav., n. 26815/2018).
Esaminando il caso di specie sulla base di tali precisazioni, gli Ermellini hanno evidenziato come la Corte territoriale, non avendo ritenuto rilevante stabilire se la sanzione della sospensione dall’attività lavorativa avesse natura cautelare o disciplinare, abbia, di fatto, realizzato una violazione di quanto disposto dall’art. 649 del c.p.p. e dall’art. 7 dello st. lav. Secondo la Cassazione, infatti, in presenza di una valutazione di merito secondo cui la sospensione dell’attività lavorativa e, quindi, della retribuzione, venga configurata alla stregua di una vera e propria sanzione disciplinare, come sembrerebbe emergere nel caso de quo, si deve ritenere consumato, con essa, il potere disciplinare del datore di lavoro, con conseguente illegittimità del successivo licenziamento irrogato sulla base dello stesso fatto che ha giustificato l’applicazione della prima sanzione.