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Servitù di panorama e alberi

Servitù di panorama e alberi
Esiste un diritto di panorama che obblighi il vicino a potare i suoi alberi?
Il diritto al panorama è stato oggetto di particolare approfondimento nella ormai lontana sentenza della Corte di Cassazione n. 3679 del 18 aprile 1996, in cui la Suprema Corte ha affrontato per la prima volta in maniera esaustiva questo tema, con specifico riferimento al problema della risarcibilità del danno, cercando di individuarne i presupposti.

Particolarmente interessante è ciò che si legge in tale sentenza sulla nozione di diritto al panorama, ove si precisa che esso non può considerarsi come un elemento necessario e connaturale alle unità abitative, ma come un elemento accidentale, derivante dalla natura delle cose e, precisamente, dalla posizione, dall’esposizione e dall’altezza del piano o della porzione di piano e dalla amenità dei luoghi in cui l’edificio è costruito.
Viene anche posto in evidenza che non tutti gli appartamenti sono panoramici, come possono non esserlo tutte le unità abitative pur se ubicate nello stesso fabbricato, e solo gli appartamenti che godono del panorama beneficiano di utilità, profitti e forme di godimento che li rendono più richiesti e apprezzati rispetto ad altri.

Circa dieci anni dopo il Tribunale di Genova, con sentenza del 9 luglio 2005, ha affermato che l’ordinamento giuridico non riconosce un diritto al panorama, di per sé considerato, precisando che neppure le limitazioni di aria e luce derivanti da opere, installazioni di manufatti e piante possono assumere giuridica rilevanza se non nella misura in cui da essi derivi una violazione delle norme codicistiche sulle distanze nelle costruzioni e sulle distanze dalle vedute.

Ciò che si può dedurre da quanto sopra riportato è che, tutte le volte in cui non sussista alcuna violazione delle distanze legali, non sia possibile riconoscere una ben precisa tutela giuridica a colui che, a seguito di una costruzione o della installazione di piante, non possa più godere del panorama di cui fino a quel momento aveva beneficiato.

Ma, oltre che come diritto, il panorama può venire in rilievo anche come servitù, in particolare come servitus altius non tollendi, derivante dalla particolare amenità del fondo dominante per la visuale di cui gode.
A tal proposito occorre muovere dalla constatazione secondo cui non vi è, purtroppo, nel nostro Codice Civile una espressa norma che imponga dei limiti ben precisi all’altezza degli alberi, a differenza di quanto previsto per la loro distanza dal confine.
Ciò comporta la necessità di doversi affidare agli orientamenti giurisprudenziali sviluppatesi in materia, ed una interessante sentenza si ritiene sia quella della Corte di Cassazione, Sez. II civile, n. 2973 del 27 febbraio 2012.
In tale decisione si lamenta proprio che due alberi di proprietà dei vicini, crescendo, avevano raggiunto il terrazzo degli attori, recando pregiudizio al loro diritto di veduta.
Ebbene, la S.C. ha affermato che il diritto di veduta, consistente nella fruizione di un piacevole panorama, che si pretende leso dalla chioma di uno o più alberi pur piantati a distanza legale, integra e può solo qualificarsi come servitus altius non tollendi (ossia servitù di non costruire oltre una certa altezza), la quale può essere acquistata anche per usucapione o destinazione del padre di famiglia.

Tuttavia, il problema dell’acquisizione in modo originario di una servitù di tale tipo sta nel fatto che per la sua costituzione non serve soltanto l’esercizio ultraventennale di attività corrispondenti alla servitù, ma anche la sussistenza di opere visibili e permanenti, ulteriori rispetto a quelle che consentono la semplice veduta (ossia, non è sufficiente, secondo la giurisprudenza, avere un terrazzo o un balcone).

A ciò si aggiunga che, secondo quanto statuito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 12051 del 17 maggio 2013, il divieto di fabbricare opere in pregiudizio dell’esercizio di una servitù di veduta, poiché presuppone una modifica dell’assetto dei luoghi richiedente un’attività costruttiva, non può estendersi alla creazione di barriere naturali (come gli alberi), a cui è applicabile la diversa disciplina dettata dagli artt. 892 e ss. c.c., ossia la disciplina in materia di distanze.
Infatti, ripercorrendo le sentenze emesse dalla Corte di Cassazione su tale specifico problema, si può constatare che sulla tematica dell’altezza degli alberi la S.C. si è espressa in un caso specifico di alberi a distanza inferiore a quella legale, nel qual caso difatti è stato imposto al proprietario dell’albero di effettuarne la cimatura soltanto perché si trattava dell’ipotesi prevista dall’ultimo comma dell’art. 892 c.c., ossia esisteva un muro sul confine e l’altezza dell’albero superava quella del muro (così Cass. civ. Sez. II sent. N. 9280 del 9 aprile 2008).

Si rinviene un solo precedente giurisprudenziale (Cass. civ. Sez. II, 13-06-1995, n. 6683) in cui la Corte di Cassazione, in presenza di alberi a distanza legale, ha imposto al proprietario degli alberi la loro cimatura periodica al fine di reintegrare il ricorrente nel possesso della veduta del panorama di Firenze, ma ciò soltanto perché la cima degli alberi ostacolava l’esercizio di una veduta che aveva costituito oggetto di un precedente contratto stipulato tra le parti, in forza del quale era stata espressamente costituita una servitù “altius non tollendi” rispettivamente a carico ed a favore dei fondi confinanti.

Solo l’esistenza di tale atto costitutivo ha indotto la S.C. a confermare la sentenza di merito, affermando che, è pur vero che “il contenuto passivo della servitù di norma consiste o nel tollerare (pati) ovvero in un astenersi dal fare (non facere) e non anche in un fare - oggetto proprio delle obbligazioni e non anche dei diritti reali - secondo il principio romanistico "servitus in faciendo consistere neguit, sedtantummodo in patiendo aut in non faciendo", ma è anche vero che “il rigore di siffatto principio trova un indubbio temperamento nell'art. 1030 c.c., il quale, come è noto, consente che un facere possa far carico (per legge o per contratto) al proprietario del fondo servente, purché esso non costituisca l'oggetto unico o principale della servitù, cioè - pur costituendo il facere un'obbligazione accessoria - non esaurisca l'intero contenuto della servitù, ma sia invece volto a consentirne il concreto esercizio”.

Volendo a questo punto trarre le conclusioni dagli orientamenti giurisprudenziali sopra riportati, si ritiene che, in assenza di un espresso titolo costitutivo (cioè di uno specifico contratto), il solo decorso del tempo non sia sufficiente per consentire ad un giudice di imporre al vicino la cimatura periodica degli alberi, anche perché si tratterebbe di una obbligazione di facere, non rientrante per sua natura nel contenuto passivo della servitù.


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