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Il ristorante non è “attività commerciale”

Il ristorante non è “attività commerciale”
Per la Cassazione l’esercizio della ristorazione non può rientrare nella nozione di "commercio", poiché connotata dalla trasformazione delle materie prime alimentari, le quali non sono direttamente commerciabili.

Con la sentenza n. 9402/2019, la Seconda Sezione Civile della Cassazione si è trovata a intervenire sulla interpretazione di un regolamento condominiale.
In particolare, sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Roma avevano ritenuto legittima la delibera, adottata dall’assemblea di un condominio, con cui era stato inibito a due società lo svolgimento di attività di ristorazione.
Secondo la Corte d’Appello, la cui decisione veniva impugnata in Cassazione dalle due società attrici, l'attività di ristorazione sarebbe eterogenea rispetto all'attività propriamente commerciale, giacché caratterizzata dalla creazione di un risultato economico nuovo rispetto alla materia prima trattata e, quindi, da intendersi piuttosto come attività industriale.
La Suprema Corte ha ritenuto di condividere l’interpretazione fatta propria dai giudici di merito, ed ha pertanto rigettato il ricorso.
Nel caso di specie, il regolamento condominiale vietava la destinazione dei negozi ad uso "diverso da... commercio regolarmente autorizzato dalle autorità competenti".
In proposito, la Cassazione ha ribadito il proprio costante orientamento, secondo cui l'interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi (al fine di tutelare l'interesse generale al decoro, alla tranquillità ed all'abitabilità dell'intero edificio, nonché ad incrementare il valore di scambio delle singole unità immobiliari) è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l'omesso esame di fatto storico ai sensi dell'art. 360 del c.p.c., comma 1, n. 5.
Nella fattispecie oggetto di giudizio, i giudici di legittimità hanno ritenuto che nella decisione della Corte d’Appello non sussistesse una tale violazione delle regole interpretative.
Secondo la pronuncia in commento, i divieti ed i limiti, contenuti nel regolamento condominiale, alla destinazione ed alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari di proprietà esclusiva devono essere chiari ed univoci. Ciò comporta che il contenuto e la portata di detti divieti e limiti debbano essere determinati innanzitutto sulla base delle espressioni letterali usate.
In proposito la Cassazione ricorda che l'art. 1362 del c.c. prescrive all'interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti, senza limitarsi al senso letterale delle parole: tuttavia ciò non significa svalutare l'elemento letterale del contratto, anzi conferma che non è ammissibile una interpretazione diversa da quella letterale, qualora il testo dell’accordo riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione.
Passando alla questione specifica oggetto di giudizio, l'interpretazione della menzionata clausola del regolamento di condominio, interpretazione volta ad escludere dalle attività consentite quella di ristorazione, “non risulta nè contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, né confliggente con l'intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, né contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l'interpretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a criticare il risultato ermeneutico raggiunto dal giudice ed a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l'unica interpretazione possibile, nè la migliore in astratto”.
Pertanto, conclude la Cassazione, in armonia con l’interpretazione data dalla Corte d’Appello, l'esercizio di un'attività di ristorazione esula dalla mera attività di commercio, la quale si risolve nella semplice intermediazione e distribuzione dei prodotti, di per sé consentita dalla disposizione regolamentare. Invece l’attività di ristorazione è “connotata dalla trasformazione delle materie prime alimentari a fini di commercializzazione di un bene direttamente utilizzabile per il consumo con caratteristiche diverse da quelle del bene originario, e dunque volta alla creazione di un risultato economico nuovo, elemento questo distintivo delle imprese industriali ex art. 2195 c.c.; oppure consistente, in ogni caso, nella produzione di beni per la somministrazione di alimenti e bevande avvalendosi di laboratori di carattere artigianale”.


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