La decisione della Suprema Corte trae origine da un caso che vedeva protagonista un avvocato, il quale, prima del deposito della sentenza definitiva pronunciata dalla Corte d’Appello adita nei confronti della società da lui assistita, otteneva un decreto ingiuntivo contro la stessa, dopo aver avuto un parere positivo dal competente Consiglio dell’Ordine sulla congruità della somma dovutagli. Sulla base di tale decreto ingiuntivo, il legale dava avvio all’esecuzione forzata nei confronti della società, la quale, tuttavia, risultava infruttuosa.
L’avvocato, pertanto, provvedeva a citare in giudizio, dinanzi al Tribunale, gli amministratori della società da lui assistita, invocandone la responsabilità sussidiaria ex art. 38 del c.c., avendo gli stessi conferito l’incarico professionale in nome e per conto della società.
Il giudice adito, però, rigettava la domanda dell’attore, ritenendolo decaduto dal proprio diritto di credito ex art. 1957 del c.c., non avendo proposto la domanda entro il termine di sei mesi come richiesto ex lege. Tale termine, infatti, a parere del giudicante, decorreva dalla data del parere di congruità della parcella fornito dal Consiglio dell’Ordine.
In seguito al rigetto dell’impugnazione presentata in appello, il legale ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione eccependo come in relazione ad un contratto d’opera professionale trovi applicazione il principio della cosiddetta "postnumerazione", in base al quale, ai sensi degli articoli 2225 e 2233 del c.c., il diritto dell’avvocato al pagamento del compenso professionale sorgerebbe soltanto all’esaurimento della sua prestazione, momento da ritenersi coincidente con il deposito della sentenza conclusiva del giudizio, come desumibile, peraltro, dall’art. 2957 del c.c..
La Suprema Corte ha accolto il ricorso e con l’occasione ha ribadito alcuni principi cardine in materia di prescrizione e decadenza del diritto ad ottenere il compenso per una prestazione professionale.
La Corte ha evidenziato, in primo luogo, come il primo comma dell’art. 1957 del c.c., ritenuto applicabile anche ai crediti vantati dal creditore di un’associazione non riconosciuta nei confronti di coloro che abbiano agito in nome e per conto di essa, stabilisca, a carico del creditore, un termine di decadenza che decorre “dalla scadenza dell’obbligazione principale”.
Inoltre, il fatto che il secondo comma dell’art. 2957 del c.c. faccia decorrere la prescrizione presuntiva del diritto all’onorario professionale dalla conclusione del processo per cui l’opera viene svolta, fa si che solo da tale momento l’obbligazione si possa considerare scaduta, rappresentando, così, il dies a quo per far valere il relativo diritto.
Alla luce di tale elemento, secondo gli Ermellini il giudice d’appello ha errato nel ritenere che il dies a quo, ai sensi dell’art. 1957 del c.c., corrispondesse alla presentazione del parere di congruità della parcella.
Da ciò deriva, inoltre, che, prima del deposito di una sentenza definitiva, si possa ritenere che un’obbligazione sia scaduta, ai sensi dell’art. 1957 del c.c., soltanto in caso di cessazione del rapporto di mandato tra il legale ed il proprio assistito.
I giudici di legittimità hanno, pertanto, affermato il principio di diritto per cui "la conclusione della prestazione, che il comma 2 dell’art. 2957 del c.c. individua quale "dies a quo" del decorso del termine triennale di prescrizione delle competenze dovute agli avvocati, deve individuarsi nell'esaurimento dell'affare per il cui svolgimento fu conferito l'incarico, momento che coincide con la pubblicazione del provvedimento decisorio definitivo".