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I messaggi Whatsapp possono essere usati come prova

I messaggi Whatsapp possono essere usati come prova
I messaggi Whatsapp nella memoria del telefono cellulare dell’imputato possono essere utilizzati come prova.
La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1822/2020, si è pronunciata in merito alla possibilità o meno di acquisire al processo come prova i messaggi rinvenuti nella memoria del telefono cellulare sequestrato all’imputato.

Nel caso di specie la Corte d’Appello di Roma, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, con il riconoscimento all’imputato dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel casellario giudiziale, confermava la condanna dello stesso, in concorso con un altro soggetto, per il reato di produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope, ai sensi del comma 5 dell’art. 73 del T.U. stupefacenti, per aver detenuto a fini spaccio 4,2 grammi di cocaina e 0,8 grammi di marijuana. La Corte, infatti, riteneva che tali circostanze fossero state sufficientemente provate anche sulla base dei messaggi Whatsapp rinvenuti nei telefoni cellulari dei due imputati.

L’uomo proponeva ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione eccependo come i giudici di merito avessero violato gli articoli 191 e 266 bis del c.p.p. Secondo il parere della difesa, infatti, sarebbero state nulle ed inutilizzabili le comunicazioni telematiche intrattenute dagli imputati, presenti nella memoria del telefono cellulare illegittimamente sequestratogli, le quali erano state acquisite attraverso una riproduzione fotografica della schermata del dispositivo. Il ricorrente sosteneva, infatti, che tale circostanza integrasse un’inutilizzabilità patologica della prova, la quale sarebbe stata acquisita in maniera contraria alla legge usando violenza sulle cose, nonché violando il diritto alla segretezza della corrispondenza di cui all’art. 15 Cost., in ossequio al quale si sarebbe dovuto procedere con le modalità di sequestro previste dal comma 2 dell’art. 354 del c.p.p..

La Suprema Corte, tuttavia, ha rigettato il ricorso.
I giudici di legittimità, infatti, attenendosi ad un loro consolidato orientamento, hanno ribadito che i dati informatici acquisiti dalla memoria di un telefono cellulare, siano essi sms, email scaricate nel dispositivo o messaggi Whatsapp, hanno natura documentale ex art. 234 del c.p.p., motivo per cui la loro acquisizione non soggiace né alle regole dettate in materia di corrispondenza, né a quelle sulle intercettazioni telefoniche.
Secondo la Corte, infatti, agli sms e ai messaggi Whatsapp rinvenuti in un dispositivo mobile sottoposto a sequestro non è applicabile la disciplina di cui all’art. 254 del c.p.p., in quanto gli stessi non possono essere considerati alla stregua della corrispondenza, la quale implica un’attività di spedizione in corso o avviata dal mittente attraverso consegna a terzi. Né essi possono essere considerati quali l’esito un’attività di intercettazione, la quale richiede la captazione di un flusso di comunicazioni in corso e una loro acquisizione ex post rappresenta una mera documentazione di tali flussi.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto per cui “i messaggi whatsapp così come gli sms conservati nella memoria di un apparecchio cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell'art. 234 del c.p.p., di tal che la relativa attività acquisitiva non soggiace alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche, con l'ulteriore conseguenza che detti testi devono ritenersi legittimamente acquisiti ed utilizzabili ai fini della decisione ove ottenuti mediante riproduzione fotografica a cura degli inquirenti”.



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