Ogni rapporto di lavoro si fonda su quanto previsto dalla legge, dal CCNL applicato in azienda e dal contratto individuale. Di rilievo sono anche e soprattutto gli obblighi di lealtà, diligenza e fedeltà, di cui all'art. 2104 del c.c. e all'art. 2105 del c.c., ai quali ogni dipendente dovrebbe sempre ispirarsi nello svolgimento delle mansioni assegnate.
Ebbene, su questi temi è recentemente intervenuta un'ordinanza della Cassazione, la n. 3405 del 10 febbraio scorso, la quale ha ribadito un principio che deriva proprio dal dettato degli appena citati articoli: il lavoratore subordinato è tenuto ad avere sempre un comportamento trasparente nei confronti del proprio datore di lavoro, senza - quindi - compiere gesti, anche al di fuori del luogo di lavoro, che possano contrastare o nuocere agli interessi e agli obiettivi aziendali.
Nel caso concreto che ha dato spunto al provvedimento dei giudici di piazza Cavour, un dipendente di RFI aveva impugnato in tribunale il licenziamento inflittogli perché, a seguito di un'ordinanza di custodia cautelare per il reato di favoreggiamento verso associazione mafiosa, si era appreso delle plurime ingerenze dell'uomo in attività economiche concorrenziali nel settore della cantieristica navale. In sostanza, dai fatti di causa era emerso che il dipendente licenziato esercitava un’attività imprenditoriale, in parte concorrente con quella della società datrice e, soprattutto, senza l’autorizzazione di quest’ultima.
Rigettando il ricorso del lavoratore, la Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello, che aveva a suo tempo ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare anche solo per la violazione del codice etico della società, il quale obbligava i dipendenti a richiedere l'autorizzazione aziendale per ogni attività economica o collaborazione con soggetti terzi.
In particolare, nel testo dell'ordinanza n. 3405 la Cassazione ha rilevato che:
Ebbene, su questi temi è recentemente intervenuta un'ordinanza della Cassazione, la n. 3405 del 10 febbraio scorso, la quale ha ribadito un principio che deriva proprio dal dettato degli appena citati articoli: il lavoratore subordinato è tenuto ad avere sempre un comportamento trasparente nei confronti del proprio datore di lavoro, senza - quindi - compiere gesti, anche al di fuori del luogo di lavoro, che possano contrastare o nuocere agli interessi e agli obiettivi aziendali.
Nel caso concreto che ha dato spunto al provvedimento dei giudici di piazza Cavour, un dipendente di RFI aveva impugnato in tribunale il licenziamento inflittogli perché, a seguito di un'ordinanza di custodia cautelare per il reato di favoreggiamento verso associazione mafiosa, si era appreso delle plurime ingerenze dell'uomo in attività economiche concorrenziali nel settore della cantieristica navale. In sostanza, dai fatti di causa era emerso che il dipendente licenziato esercitava un’attività imprenditoriale, in parte concorrente con quella della società datrice e, soprattutto, senza l’autorizzazione di quest’ultima.
Rigettando il ricorso del lavoratore, la Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello, che aveva a suo tempo ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare anche solo per la violazione del codice etico della società, il quale obbligava i dipendenti a richiedere l'autorizzazione aziendale per ogni attività economica o collaborazione con soggetti terzi.
In particolare, nel testo dell'ordinanza n. 3405 la Cassazione ha rilevato che:
- l’obbligo di fedeltà gravante sul dipendente ha un perimetro più ampio di quello risultante dall’art. 2105 del Codice Civile, dovendosi combinare con i principi di correttezza e buona fede di cui all'art. 1175 del c.c. e all'art. 1375 del c.c.;
- nel caso in oggetto, il dipendente, pur in regime part-time, svolgeva ruoli operativi e gestionali in diverse società, senza aver informato l'azienda datrice di lavoro e - quindi - in palese contrasto con le regole e il codice etico interni.
In altre parole, la Corte ha ribadito che il dovere di fedeltà non è circoscritto al mero divieto di concorrenza, ma comporta l'astensione da ogni attività potenzialmente lesiva degli interessi aziendali e tale, quindi, da deteriorare il rapporto fiduciario alla base di qualsiasi contratto di lavoro.
Ecco perché, al di là di un eventuale danno economico patito dall'azienda, la violazione dei suddetti obblighi ha legittimato il licenziamento per giusta causa, e ciò tanto più che l'omissione della comunicazione delle altre attività si collegava a un contesto particolarmente delicato e con risvolti di carattere penale.
Ecco perché, al di là di un eventuale danno economico patito dall'azienda, la violazione dei suddetti obblighi ha legittimato il licenziamento per giusta causa, e ciò tanto più che l'omissione della comunicazione delle altre attività si collegava a un contesto particolarmente delicato e con risvolti di carattere penale.