Segnatamente, come già osservato dalle Sezioni Unite Caruso, la legge n. 242 del 2016, orientata a promuovere la coltivazione agroindustriale di canapa delle varietà ammesse, consente a determinati coltivatori autorizzati dalla legge di impiantare coltivazioni di cannabis sativa alla fine di ottenere prodotti come fibre, carburanti e prodotti agroalimentari ma non hashish e marijuana (art. 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016). Tale impianto normativo è coerente con la disposizione ex art. 26 del T.U. stupefacenti comma II, il quale contiene una eccezione al divieto di coltivazione della canapa nel territorio nazionale, selezionando le piante la cui coltivazione è vietata. Tale norma, rinviando all’art. 14 del T.U. stupefacenti, che detta i criteri per la formazione delle tabelle che individuano la soglia di rilevanza penale, prevede un'eccezione per la c.d.canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali. Alla luce del quadro normativo indicato, dunque, la coltivazione industriale di cannabís sativa promossa dalla legge 242 del 2016, rientra tra le coltivazioni di canapa per la produzione di fibre o di altri usi industriali, diversi da quelli farmaceutici, per le quali non opera il divieto di coltivazione di cui all'art. 26, d.P.R. n. 309/1990.
In forza di queste considerazioni, è possibile comprendere l’articolato percorso argomentativo della Cassazione che ha appunto attribuito natura tassativa alle categorie di prodotti di cui all'art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016, che possono essere ottenuti dalla coltivazione agroindustriale di cannabis sativa L.. Ciò perché si tratta di prodotti che derivano da una coltivazione che risulta consentita solo in via di eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato. Alla luce di tali considerazioni, la commercializzazione di cannabis sativa light o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra dunque il reato di coltivazione ex art. 73 del T.U. stupefacenti co. 1 e 4, anche dalla suddetta normativa. La disposizione in commento, infatti, procede ad incriminare la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivati della cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di THC che deve essere presente in tali prodotti, attesa la richiamata nozione legale di sostanza stupefacente, che informa l’art. 13 del T.U. stupefacenti e l’art. 14 del T.U. stupefacenti.
Pertanto, deve rilevarsi che la cessione, la messa in vendita ovvero la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, di prodotti, diversi da quelli espressamente consentiti dalla legge n. 242 del 2016, derivati dalla coltivazione della cosiddetta cannabis light, integra gli estremi del reato ex art. 73, del testo unico citato poichè vale ad integrare il tipo legale individuato dalle norme incriminatrici. Da ultimo, la Suprema Corte ricorda che la rilevanza penale della condotta di coltivazione è comunque subordinata alla verifica della concreta offensività della condotta che, nel caso di specie, avviene attraverso l’analisi della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti oggetto di cessione.