Segnatamente, durante partita amatoriale di calcio, a causa di un particolare momento di concitazione agonistica un “tackle” di un giocatore eseguito al precipuo scopo di evitare una manovra di contropiede cagionava ad un avversario plurime fratture scomposte agli arti inferiori. All’esito di dovuti accertamenti medici, alla persona offesa veniva prognosticata una incapacità di attendere alle ordinarie mansioni per una durata superiore a quaranta giorni. A prescindere dai risvolti civilistici della vicenda, la persona offesa denunciava l’autore dell’intervento – reputato oltre il normale illecito sportivo sanzionato con i c.d. “cartellini– che per l’effetto veniva condannato dal Tribunale di Lucca, con sentenza confermata in grado di appello, reputando i giudici integrati gli estremi del delitto di lesioni personali colpose ex art. 590 del c.p.. Ciò posto, in punto di diritto, la Corte di Appello ha ritenuto che la condotta dell’imputato non fosse giustificata dall’esercizio dell’attività sportiva ex art. 51 del c.p., atteso che determinate tipologie di “scivolata” sono vietate nel calcio a cinque. Per l’effetto, il giudice di seconde cure ha afferrmato che quel tackle andava al di là del mero gesto atletico e dunque non rientrasse nella c.d. area di rischio consentito: ovvero quel perimetro in cui l’ordinamento si accolla le vicende lesive causate nell’alveo di attività pericolose ma autorizzate perché socialmente utili.
La vicenda ha rinvenuto il proprio epilogo nel pronunciamento della giurisprudenza di legittimità che, intervenuta sul tema, ha fornito interessanti spunti circa la legittimità della c.d. scriminante sportiva ormai pacificamente riconosciuta come tale dalla precedente giurisprudenza, stante la prevalenza dell’interesse generale della collettività a che venga svolta attività sportiva rispetto all’interesse individuale relativo all’integrità fisica.
Orbene, la sentenza in commento si caratterizza per costituire un importante punto di svolta della configurazione dell’attività sportivo-calcistica nell’alveo del diritto penale. Secondo gli Ermellini, l’impostazione tradizionale che fonda il discrimen fra illecito sportivo ed illecito penale sull’operatività del c.d. rischio consentito non appare pienamente soddisfacente perché essa implica che l’attività sportiva costituisca una causa di giustificazione, laddove, invece, essa è attività lecita e regolata dalla normazione di ciascun specifico settore disciplinare, anche con riferimento al livello agonistico più o meno elevato.
La soluzione al problema de quo, pertanto, deve essere individuata nello slittamento del livello di analisi dal piano della antigiuridicità a quello della colpevolezza. L’accertamento condotto su questo piano permette di ragionare – soltanto dopo aver acclarato che la violazione della norma cautelare sia stata volontaria – in termini di colpevolezza dolosa ovvero colposa; in tale ultimo caso, costituisce passaggio imprescindibile la verifica della prevedibilità in concreto dell’evento dannoso. In sintesi, per aversi responsabilità penale, in omaggio all’art. 27 Cost. co. I, è necessario che l’azione possa prevedibilmente, con valutazione ex ante, causare il danno (concretizzazione del rischio), laddove l’assenza di prevedibilità non comporta colpevolezza se la norma disciplinare violata ha un fine diverso da quello di evitare l’evento dannoso (causalità della colpa).