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Inviare messaggi ingiuriosi all’ex coniuge e alla sua nuova compagna integra il reato di molestia o disturbo alle persone

Inviare messaggi ingiuriosi all’ex coniuge e alla sua nuova compagna integra il reato di molestia o disturbo alle persone
Se non ci sono prove sufficienti per integrare la fattispecie di stalking, l’invasione della vita privata dell’ex e della sua nuova compagna può configurare la contravvenzione di molestia o disturbo alle persone.
La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7887/2020, si è pronunciata in merito alla configurabilità dei reati di molestia o disturbo alle persone, ex art. 660 del c.p., e di violenza privata, ex art. 610 del c.p., in capo a chi abbia tenuto condotte invadenti nei confronti del proprio ex partner e della sua nuova compagna.

Nel caso di specie una donna, stante la sua difficoltà di accettare la fine del proprio matrimonio, a cui si aggiungeva un rapporto conflittuale con l’ex coniuge e dei problemi relazionali tra la stessa e la figlia minore, aveva pedinato l’ex marito e la sua nuova compagna e gli aveva inviato dei messaggi ingiuriosi.
All’esito del giudizio di primo grado, tuttavia, la donna veniva assolta dai reati di atti persecutori, di cui all’art. 612 bis del c.p., e di violenza privata, ex art. 610 del c.p.. Secondo il Tribunale, infatti, oltre ad essere state presentate tardivamente le querele in merito all’invio di messaggi ingiuriosi, non vi sarebbero state prove in relazione ai pedinamenti. Inoltre, secondo il giudice di prime cure, nemmeno l’utilizzo una tantum di un cannocchiale per osservare all’esterno della propria abitazione poteva essere collegato automaticamente ad una volontà dell’imputata di controllare l’abitazione delle parti civili.
Inoltre, sempre secondo il Tribunale, non costituiva una condotta persecutoria il fatto che l’imputata avesse tentato di accedere al profilo facebook della nuova compagna dell’ex coniuge, in quanto quest’ultima aveva pur sempre la facoltà di rifiutare la sua richiesta di amicizia.
Il fatto poi, che la coppia accedesse sino all’uscio dell’abitazione dell’imputata nel recarsi a prendere la figlia minore, avrebbe denotato l’assenza, negli stessi, di uno stato di ansia tale da giustificare, in capo all’imputata, una responsabilità penale ai sensi dell’art. 612 bis del c.p..
Veniva, altresì, ritenuta infondata anche l’accusa di violenza privata in relazione ad un’asserita contesa per la figlia minore della coppia, dato che questa era, infine, rimasta con il padre.

Le parti civili, alla luce di quanto deciso dal giudice di primo grado, proponevano appello. Il secondo grado di processo si concludeva con una riforma della pronuncia emessa dal Tribunale. Secondo la Corte territoriale, infatti, la condotta tenuta dall’imputata, pur non avendo provocato lo stato d’ansia richiesto per la configurazione del delitto di atti persecutori, essendosi tradotta in comportamenti invadenti ed arroganti nei confronti delle parti civili, avrebbe comunque realizzato la fattispecie contravvenzionale di molestia o disturbo alle persone, punita ai sensi dell’art. 660 del c.p..
Quanto, invece, al delitto di violenza privata, la Corte d’Appello adita confermava quanto deciso dal giudice di prime cure.

Alla luce di tale decisione, l’imputata ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando, in primo luogo, come la Corte d’Appello non avesse ottemperato all’obbligo di fornire una motivazione rafforzata, gravante su di essa qualora, come nel caso di specie, decidesse di ribaltare la decisione di primo grado, essendosi, invece, limitata a valutare in modo del tutto superficiale gli atti di causa. La ricorrente eccepiva, inoltre, come, pur non avendo ritenuto perfezionato il delitto di violenza privata, il giudice di secondo grado ne avesse comunque fatto derivare delle conseguenze sul piano civilistico.

La Suprema Corte, ritenendo fondati i motivi di doglianza, ha accolto il ricorso.
Quanto, innanzitutto, al primo motivo di ricorso, gli Ermellini hanno evidenziato come la Corte d’Appello, nel discostarsi dalla pronuncia di primo grado, non abbia effettivamente adempiuto al proprio obbligo di fornire una motivazione rafforzata, limitandosi, invece, a sottolineare il carattere molesto ed invadente delle condotte dell’imputata, giudicandole mosse da una motivazione biasimevole, senza, però, confrontarsi con quanto dichiarato dal Tribunale.

È stato, poi, parimenti accolto anche il motivo di ricorso con cui l’imputata aveva eccepito il fatto che la Corte d’Appello le avesse addossato delle conseguenze sul piano civilistico anche dal reato di violenza privata, sebbene questo non fosse stato ritenuto perfezionato.


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