Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Milano aveva dichiarato un imputato colpevole del delitto di cui all’art. 660 c.p. (molestia o disturbo alle persone), riqualificando l’originaria imputazione che aveva visto l’imputato accusato del reato di stalking (art. 612 bis c.p.).
L’imputato, in particolare, si era appostato sotto l’abitazione della persona offesa, “scrivendo sulla sua autovettura e sul portone dell’abitazione frasi a sfondo sessuale”.
La persona offesa, inoltre, aveva riferito di aver subito “le improprie attenzioni” dell’imputato, che le avevano causato “uno stato d’ansia con insonnia e perdita di peso”.
Nonostante tali circostante, il giudice riteneva che l’imputato non potesse essere condannato per stalking, in quanto, dalla ricostruzione dei fatti, non era emerso che la persona offesa “avesse dovuto modificare le sue abitudini di vita”, elemento che sarebbe necessario per la sussistenza del reato di stalking.
A ulteriore sostegno della propria decisione, il giudice osservava che lo stato d’ansia della persona offesa era durato solo per un limitato periodo di tempo (circa venti giorni).
Ritenendo la decisione ingiusta, il Procuratore della Repubblica decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, evidenziando come il giudice avesse errato “nell’operare la distinzione fra le fattispecie astratte del delitto di atti persecutori e del reato di molestie”.
Secondo il ricorrente, infatti, il reato di cui all’art. 660 c.p. è volto “a tutelare la quiete pubblica, oltre che la tranquillità privata mentre il delitto di atti persecutori tutela la libertà morale dell’individuo”.
Di conseguenza, quando, come nel caso di specie, “le condotte moleste suscitino uno degli eventi disgiuntivamente previsti dall’art. 612 bis cod. pen., lo stato di timore o il mutamento delle abitudini di vita, è solo quest’ultima fattispecie astratta che deve ritenersi violata”.
Nel caso in esame, infatti, la persona offesa, a seguito delle condotte poste in essere dall’imputato, “aveva deciso di pernottare in luogo diverso dalla sua abitazione, aveva chiamato la madre perché la raggiungesse, cadendo in uno stato d’ansia che aveva travalicato lo stretto ambito temporale delle condotte”.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Secondo la Cassazione, infatti, “ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, è sufficiente il realizzarsi di anche uno solo degli eventi alternativamente previsti dall’art. 612 bis cod. pen.”, vale a dire il “perdurante e grave stato di ansia o di paura” e “il fondato timore per l’incolumità propria”.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, il giudice non aveva adeguatamente valutato le prove raccolte, affermando erroneamente che “non vi era stata alcuna modifica delle abitudini di vita” e “neppure le frasi scritte dall’imputato sarebbero state di tenore tale da poter causare un apprezzabile stato d’ansia o di timore, quando invece, con dichiarazione testimoniale della cui attendibilità non si era dubitato (…), la persona offesa aveva, invece, affermato sia di avere modificato le proprie abitudini di vita, facendosi raggiungere dalla madre che abitava a qualche centinaio di chilometri ed abbandonando per alcune notti il proprio domicilio, sia di avere patito stati d’ansia e timore tali da causarle difficoltà sul lavoro, insonnia ed ingente perdita di peso”.
Precisava la Cassazione, inoltre, che irrilevante appariva la circostanza secondo cui le condotte erano state poste in essere per un periodo di tempo limitato, dal momento che “è configurabile il delitto di atti persecutori anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi, pur concentrata in un brevissimo arco temporale, una sola giornata, sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica, annullando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d’appello di Milano per un nuovo esame della questione.