Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato un’imputata per i reati di cui sopra, in quanto la medesima “con condotte reiterate, inviando missive di contenuto offensivo a (…) – nelle quali commentava in maniera volgare e offensiva la relazione extraconiugale intrattenuta dal marito di quest’ultima con una collega di lavoro, o affiggendo missive dello stesso contenuto nelle bacheche dell’ospedale presso il quale si trovava la farmacia dove lavorava la persona offesa” aveva cagionato alla vittima “un perdurante e grave stato d’ansia e di paura, costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Inoltre, l’imputata risultava aver “usato violenza nei confronti dei militari, che avevano cercato di strappare dalle sue mani la busta contenente una lettera anonima, che stava infilando sotto la porta dell’indicata farmacia, provocando loro lesioni”.
La condannata, ritenendo la sentenza ingiusta, proponeva ricorso in Cassazione, rilevando come non si fosse verificato nessuno degli eventi di danno evidenziati dalla Corte d’appello.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla ricorrente, rigettando il relativo ricorso.
Secondo la Cassazione, infatti, il giudice d’appello aveva correttamente riformato la sentenza assolutoria di primo grado, la quale non aveva adeguatamente valorizzato il contenuto delle deposizioni testimoniali raccolte, poiché “le conclusioni relative all’attribuibilità delle lettere all’imputata scaturiscono da un’analisi stilistica e contenutistica delle stesse, mentre il “sospetto” della riconducibilità del disagio della donna" derivava "dalla mera conoscenza della relazione non correlato ad alcuna elaborazione delle risultanze istruttorie”.
La Corte di Cassazione, peraltro, evidenziava come la decisione del giudice d’appello avesse adeguatamente valorizzato il fatto che, nel caso di specie, “le lettere venivano lasciate piegate in modo da poter essere lette anche da altri, o appese ai muri” in modo tale che chi passava potesse agevolmente leggerle.
Inoltre, la Corte d’appello aveva, altrettanto adeguatamente, fondato la propria decisione sulla base della circostanza secondo cui “la volgarità, gli scherni e le ingiurie contenute nelle lettere (…) vanno, nel caso di specie, colte proprio in relazione alla vicenda cui si correlano”, vale a dire, “la relazione extraconiugale del marito della persona offesa, in tal modo sviluppando (…) l’efficacia dannosa rispetto alla tranquillità psichica” della persona offesa.
Precisava la Cassazione, peraltro, che “la sofferenza normalmente connessa alla scoperta di una relazione del proprio partner con terzi, non elide che uno specifico e diverso turbamento psichico possa derivare dalla potenziale diffusione della notizia anche presso terzi, per effetto di reiterate comunicazioni accompagnate, tra l’altro, a epiteti ingiuriosi che sminuiscono la personalità della persona tradita”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla ricorrente, confermando la sentenza resa dalla Corte d’appello e condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali.