Nel recentissimo provvedimento citato, infatti, la Suprema Corte afferma chiaramente che “ove si accerti, anche giudizialmente, la non debenza di una determinata somma, la buona fede di cui colui che l’ha percepita e che sia tenuto alla relativa restituzione incide, se del caso, sulla decorrenza dei frutti e degli interessi maturati, ma certamente non giustifica la ritenzione di ciò che gli è stato indebitamente pagato”.
A rinforzo di tale argomentazione, la Suprema Corte invoca anche un proprio precedente secondo cui l’accertamento dell’insussistenza del diritto all’assegno divorzile comporta che lo stesso non sia dovuto a partire dal momento dell’iniziale attribuzione, di natura costitutiva.
Alla luce di tali motivi, la Cassazione rileva che l’obbligo restitutorio decorre dal momento in cui l’ex coniuge beneficiaria dell’assegno “ha concretamente iniziato a percepire l'emolumento, poi risultato non dovutole”, momento a partire dal quale sono dovuti altresì, in virtù dell’art. 1282 c.c., gli interessi legali sulla somma da restituire.
Al fine di meglio comprendere tali conclusioni, giova ripercorrere la non poco complessa vicenda giudiziaria da cui è scaturita la recente pronuncia.
Nel caso di specie, infatti, il Tribunale in sede di divorzio aveva valorizzato il netto squilibrio tra i redditi e i patrimoni dei coniugi e aveva riconosciuto all’ex moglie il diritto all’assegno divorzile.
Tale provvedimento, successivamente, aveva trovato conferma in sede di appello.
L’ex marito aveva dunque proposto ricorso in Cassazione, segnalando come i mezzi economici della controparte fossero più che idonei a garantirle un tenore di vita dignitoso.
La Suprema Corte, con ordinanza n. 20525/2017, aveva allora accolto il ricorso, affermando espressamente la non debenza delle somme corrisposte e aveva dunque disposto il rinvio alla Corte d’appello di Ancona.
In sede di rinvio, poi, la Corte d’appello aveva revocato l’assegno di divorzio e, di conseguenza, aveva condannato alla restituzione delle somme riscosse a partire dal momento della sentenza della Cassazione che aveva dichiarato l’assegno non dovuto.
A sostegno di tale limitazione, nello specifico, la Corte d’appello aveva addotto la buona fede della donna, desumibile soprattutto dal fatto che solo nel luglio 2018 le Sezioni Unite avevano sposato la nuova concezione dell’assegno divorzile (secondo cui esso ha una natura “polifunzionale”, allo stesso tempo assistenziale e perequativo-compensativa, e mira non tanto alla ricostruzione del tenore di vita endo-coniugale quanto piuttosto a stabilire un equilibrio economico tra i coniugi, in considerazione dal ruolo giocato da entrambi in pendenza di matrimonio).
Avverso tale statuizione l’ex marito aveva dunque proposto un nuovo ricorso in Cassazione.
Il ricorrente, specificamente, si doleva dell’insussistenza della buona fede richiamata dai giudici del rinvio. Inoltre, egli lamentava comunque l’inidoneità dell’asserita buona fede ad impedire l’integrale restituzione: solo i frutti e gli interessi, difatti, avrebbero potuto essere elisi dalla restituzione.
E proprio tali censure, con la sentenza della Cassazione n. 28646/2021, hanno trovato accoglimento: la Suprema Corte ha invero affermato che il citato mutamento giurisprudenziale ben può costituire elemento per valutare la buona fede del beneficiario dell’assegno divorzile, ma esso non può anche giustificare il diniego dell’integrale restituzione dell’indebito.