La pronuncia in esame ha tratto origine da un caso in cui il Tribunale aveva disposto l’affido condiviso di una minore, collocandola prevalentemente presso la madre a cui veniva, inoltre, assegnata la casa familiare, e riconoscendo al padre un diritto di visita.
Quest’ultimo proponeva reclamo contro la decisione di primo grado, rivolgendosi alla Corte d’Appello che, tuttavia, respingeva le sue richieste. I giudici d’appello ritenevano, infatti, che lo spostamento della residenza della figlia avrebbe provocato un inutile turbamento delle sue attuali abitudini di vita assieme alla madre.
La Corte territoriale evidenziava, peraltro, come una convivenza perfettamente paritaria con entrambi i genitori sarebbe risultata faticosa e destabilizzante per la figlia, la cui attuale vita sarebbe stata sconvolta. Si osservava, inoltre, come il diritto di visita attribuito al padre rispondesse al primario interesse della minore, consentendole, al contempo, di mantenere un ampio spazio di relazione con il genitore, senza, però, subire un cambiamento dei propri ritmi di vita.
Il padre, in seguito a tale pronuncia, decideva di ricorrere in Cassazione.
Con il proprio ricorso l’uomo, tra gli altri motivi di doglianza, rilevava, innanzitutto, come non fosse stato adeguatamente considerato il fatto che l’ex moglie svolgesse un lavoro su turni.
Il ricorrente contestava, inoltre, la posizione assunta dalla Corte d’Appello, per la quale i principi posti alla base della regolamentazione dei rapporti tra genitori non conviventi e figli non risponderebbero a parametri aritmetici, non traducendosi in simmetrica ripartizione dei tempi di permanenza del minore con ciascuno dei genitori.
La Suprema Corte, tuttavia, ha rigettato il ricorso.
Quanto, in primo luogo, alla doglianza per cui i giudici di merito non avrebbero attribuito sufficiente rilievo ai tempi lavorativi dei genitori, i giudici di legittimità hanno evidenziato che la Corte d’Appello ha preso la propria decisione ritenendo che avrebbe dato una maggiore stabilità alla bambina il mantenimento di una relazione stabile con la madre. Quest’ultima, infatti, soprattutto nella fase della prima infanzia, è stata ritenuta maggiormente in grado di assicurare una crescita serena ed equilibrata alla figlia, garantendole, in ogni caso, di frequentare il padre. Secondo gli Ermellini, infatti, stabilire la residenza della minore esclusivamente sulla base degli impegni lavorativi dei genitori, come richiesto dal ricorrente, non costituirebbe la risposta più adeguata a soddisfare i bisogni della figlia.
Per quanto concerne, poi, la questione relativa al tempo che il minore dovrebbe trascorrere con ciascuno dei genitori, gli Ermellini hanno ribadito come la Corte d’Appello non abbia fatto altro che conformarsi al principio di diritto in precedenza affermato dalla Cassazione, in base a cui “la regolamentazione dei rapporti fra genitori non conviventi e figli minori non può avvenire sulla base di una simmetrica e paritaria ripartizione dei tempi di permanenza con entrambi i genitori ma deve essere il risultato di una valutazione ponderata del giudice di merito che, partendo dalla esigenza di garantire al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena, tenga anche conto del suo diritto a una significativa e piena relazione con entrambi i genitori e del diritto di questi ultimi a una piena realizzazione della loro relazione con i figli e all'esplicazione del loro ruolo educativo.”