Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Monza aveva condannato un imputato per il reato di “stalking” (art. 612 bis c.p.), commesso in danno di una donna, alla quale era stato legato da una relazione sentimentale.
Il Tribunale, in particolare, era giunto alla conclusione di dover affermare la penale responsabilità dell’imputato sulla base delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, che erano state confermate dai genitori della vittima.
La decisione era stata confermata in sede di appello, con la conseguenza che l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione.
Secondo il ricorrente, i giudici dei precedenti gradi di giudizio avrebbero errato nel valutare come attendibili le dichiarazioni della persona offesa.
I giudici, inoltre, non avevano nemmeno tenuto in considerazione le prove a discarico dell’imputato, ignorando le contraddizioni che erano emerse nel racconto della persona offesa e trascurando anche il fatto che tra l’imputato e la persona offesa erano pendenti delle altre controversie giudiziarie.
Osservava il ricorrente, infine, che i giudici avevano erroneamente considerato “una valida conferma alla tesi accusatoria il narrato dei genitori della vittima”, i quali, tuttavia, erano indubbiamente ostili all’imputato stesso.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover dar ragione all’imputato, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Osservava la Cassazione, in proposito, che le dichiarazioni della persona offesa possono essere poste da sole a fondamento dell’affermazione della penale responsabilità di un imputato solo se viene attentamente verificata la “credibilità soggettiva” della persona offesa e la “attendibilità intrinseca” del suo racconto.
Inoltre, secondo la Cassazione, tale controllo di attendibilità del dichiarante, deve essere ancora più rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di un qualsiasi testimone.
Ebbene, nel caso di specie, secondo la Cassazione, “a fronte di una così evidente conflittualità tra l'imputato e la persona offesa”, che era sfociata in una serie di liti giudiziali, la Corte d’appello non avrebbe dovuto semplicemente richiamare la motivazione della sentenza di primo grado, ma avrebbe dovuto verificare nuovamente e autonomamente l’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa.
Poiché, invece, la Corte d’appello non aveva proceduto in questo modo, la relativa sentenza, secondo la Cassazione, avrebbe dovuto essere anullata.
Ciò considerato, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dall’imputato, rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima decidesse nuovamente sulla questione, in base ai principi sopra enunciati.