La questione è stata posta all’attenzione della Corte di Cassazione, la quale ha fornito delle interessanti indicazioni, con la recente sentenza n. 3025 dell’8 settembre 2015, pubblicata il 22 gennaio 2016.
Nel caso esaminato dalla Corte, i giudici che si erano pronunciati nei primi due gradi di giudizio, erano giunti alla conclusione che il coniuge avesse imposto all’altro un regime di vita definito “insostenibile ed umiliante”, proprio a causa delle frequenti scenate di gelosia, effettuate soprattutto dopo il rientro dei coniugi da Santo Domingo, luogo in cui gli stessi avevano celebrato il matrimonio.
Inoltre, erano stati ascoltati anche dei testimoni, ritenuti attendibili, che avevano confermato come la moglie fosse continuamente assillata dal marito, che controllava ogni spostamento e ogni attività della stessa (in particolare, la titolare del bar presso il quale la moglie lavorava come cameriera, aveva riferito al giudice come il marito fosse assillante nel controllare la consorte, in quanto temeva che la stessa lo tradisse).
Arrivati al terzo grado di giudizio, la Corte di Cassazione ha ricordato alle parti come, effettivamente, la gelosia possa avere rilevanza sia sul piano civile che su quello penale.
Infatti, dal punto di vista del diritto civile, questo comportamento morboso può essere considerato causa di “addebito” della separazione (questo significa, in concreto, che il coniuge eccessivamente geloso verrà considerato responsabile della separazione, con la conseguenza che allo stesso non verrà riconosciuto il diritto a percepire l’assegno di mantenimento da parte dell’altro coniuge, anche se effettivamente si trovi in una situazione economica di bisogno).
Anche dal punto di vista del diritto penale, le azioni dettate della gelosia possono avere conseguenza particolarmente gravi, potendo considerarsi dei veri e propri maltrattamenti: si pensi, infatti, che proprio nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento, i giudici avevano condannato il marito a ben otto mesi di reclusione, dopo che lo stesso era arrivato al punto di pedinare la moglie, oltre che a insultarla e picchiarla.
Questo tipo di maltrattamenti, infatti, rientra, secondo il giudizio della Corte di Cassazione, nel reato di “atti persecutori”, più noto al pubblico come “stalking”, previsto dall’art. 612 bis del c.p.
Come noto, questo reato è stato introdotto nel nostro ordinamento non molti anni fa e, in particolare, con la legge n. 38 del 2009.
Per comprendere meglio questa figura, è sufficiente leggere la prima parte della norma, che è molto chiara nello stabilire che chi “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
Inoltre, va osservato che se questi comportamenti molesti vengono posti in essere nei confronti del coniuge, anche se separato o divorziato, le conseguenze rischiano di essere ancora più gravi.
La stessa norma, infatti, prevede un aumento della pena nel caso in cui questi comportamenti molesti, tenuti con una certa continuità, vengano tenuti “nei confronti coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa”.
Cosa fare, quindi, se ci troviamo di fronte ad un marito o una moglie che con la loro gelosia sono arrivati a molestarci?
Anche con riferimento a questo aspetto è l’art. 612 bis del c.p. a fornirci delle indicazioni. La norma infatti prevede espressamente che è necessario presentare una querela entro il termine di sei mesi.