Nel caso esaminato dalla Corte d’appello, il Tribunale di Taranto aveva condannato per aver violato la misura di prevenzione della “sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno” (art. 9, legge n. 1423 del 1956), in quanto questi aveva guidato un veicolo senza essere munito della patente di guida e “associandosi a persone sottoposte a procedimenti penali”.
Il Tribunale, inoltre, aveva condannato l’imputato anche per il reato di “resistenza a pubblico ufficiale” (art. 337 cod. pen.), in quanto questi, mentre era alla guida del veicolo sopra citato si era opposto con violenza ai Carabinieri che gli avevano ordinato di fermarsi, “effettuando una manovra di retromarcia a forte velocità nonostante la presenza di veicoli che lo seguivano e numerosi pedoni e allontanandosi repentinamente, mettendo in pericolo l’incolumità degli agenti operanti e delle altre persone presenti”.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte d’appello, nella speranza di ottenere la riforma della sentenza sfavorevole.
Evidenziava l’imputato, in particolare, di aver frequentato persone pregiudicate “in quanto ad esse legato da vincoli di parentela” e che la condotta violenta nei confronti dei Carabinieri non era stata finalizzata a mettere in pericolo l’incolumità dei Carabinieri, né a ostacolarne il servizio.
La Corte d’appello, tuttavia, non riteneva di poter accogliere l’impugnazione proposta dall’imputata, dichiarandola infondata.
Secondo la Corte d’appello, in particolare, il Tribunale aveva del tutto correttamente condannato l’imputato, sulla base delle prove raccolte in corso di causa, che dimostravano inequivocabilmente la sua colpevolezza.
Osservava la Corte d’appello, nello specifico, che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 9 della legge n. 1423 del 1956, è irrilevante che la persona pregiudicata frequentata sia un parente, dal momento che lo scopo della norma è quello di “prevenire attività criminose” e di vietare al sorvegliato “di frequentare persone inclini al crimine che potrebbero indurlo a commettere ulteriori reati”.
La Corte d’appello riteneva, inoltre, integrato anche il reato di “resistenza a pubblico ufficiale”, precisando che lo stesso può dirsi commesso da parte del soggetto che si dia alla fuga, alla guida di un’auto, “non limitandosi a cercare di sottrarsi all’inseguimento, bensì ponendo deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida obiettivamente pericolosa, l’incolumità personale degli agenti inseguitori o degli altri utenti della strada”.
Nel caso di specie, infatti, i Carabinieri avevano proceduto al fermo dell’auto e dell’imputato, azionando i dispositivi luminosi ma, nonostante ciò, l’imputato “alla vista dei militari, aveva effettuato, a forte velocità, una repentina manovra in retromarcia dandosi ad una precipitosa fuga, inseguito dai suddetti militari”.
In questo modo, dunque, secondo la Corte d’appello, l’imputato aveva messo a repentaglio “non solo l’incolumità dei pubblici ufficiali, ostacolandone il doveroso servizio, ma anche e soprattutto quella dei passanti e degli altri veicoli ivi presenti, trattandosi di zona particolarmente frequentata in quanto sede di numerosi esercizi commerciali tra cui un grosso supermercato”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte d’appello riteneva corretta la decisione assunta dal giudice di primo grado, rigettando l’impugnazione proposta dall’imputato e condannando l’appellante al pagamento delle spese processuali.