Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Palermo aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di Agrigento aveva assolto un imputato dal reato di diffamazione, per “insussistenza del fatto”.
L’imputato era stato accusato di tale reato per aver pubblicato, sul proprio profilo Facebook, un messaggio offensivo della reputazione delle strette famigliari di uno zio defunto, che si erano costituite come parte civile nel processo penale, chiedendo di essere risarcite del danno subito.
Il messaggio, in particolare, era “del seguente tenore: ‘Un grande ciao allo zio Ca.Pi. che se ne è andato nel silenzio più assordante, grazie a persone disturbate mentalmente non si può morire con dignità. Riflettiamo gente....’”.
Ritenendo la decisione ingiusta, le parti civili cui era stato negato il risarcimento decidevano di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo le ricorrenti, infatti, la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto che le frasi oggetto di contestazione non avessero contenuto diffamatorio, non contenendo le stesse alcun riferimento personale alle parti civili.
Osservavano le ricorrenti, in proposito, che “l'intento diffamatorio può essere perseguito anche attraverso subdole allusioni e che non è necessaria per la configurazione del reato l'indicazione nominativa del diffamato”.
Evidenziavano le ricorrenti, inoltre, che, nel caso di specie, le frasi offensive erano indubbiamente a loro riferibili, ed erano state dovute al fatto che le stesse “avevano deciso di far celebrare le esequie del loro marito e padre Ca.Gi. in forma strettamente privata, suscitando non poche polemiche, tanto più che si erano sparse in paese delle voci di mancate cure al defunto durante la malattia da parte dei familiari”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione alle ricorrenti, rigettando il ricorso da questi proposto, in quanto infondato.
Rilevava la Cassazione, infatti, che, ai fini della sussistenza del reato di diffamazione è necessario che la persona cui è diretta l’offesa sia determinata, pur non essendo necessario che la stessa “sia menzionata nominativamente”.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, il suddetto reato non può dirsi sussistente “quando l'atteggiamento descritto e che si ritiene diffamatorio sia riferibile non ad un determinato soggetto, ma ad una generica pluralità di soggetti, non identificabili né individuabili specificamente”.
Ebbene, nel caso di specie, la Cassazione riteneva che la Corte d’appello avesse del tutto correttamente escluso la responsabilità penale dell’imputato, in quanto, nel corso del processo, questi aveva fornito la spiegazione del messaggio pubblicato su Facebook, evidenziando dettagliatamente il contesto e le circostanze che l’avevano giustificato.
L’imputato, infatti, aveva evidenziato “la figura morale e la rilevanza del ruolo del defunto Ca.Pi. nel piccolo paese; la tradizione locale in ordine alla pubblicità e agli orari dei funerali; la decisione della moglie e delle figlie di far svolgere le esequie di mattino e non di pomeriggio, senza la preventiva abituale pubblicazione degli annunci; le critiche che si erano diffuse in paese per tale decisione; le chiacchiere calunniose (…) che si erano diffuse in paese”.
L’imputato, inoltre, aveva ammesso di aver voluto semplicemente esprimere “il proprio fastidio e la propria tristezza perchè Ca.Pi. se ne era andato in silenzio (a causa della mancata pubblicazione dei manifesti del funerale) assordante (a causa del chiacchiericcio critico sparso in paese)”, precisando, tuttavia, che “il bersaglio dell'offesa a cui egli aveva mirato” non erano affatto le ricorrenti ma coloro che avevano criticato e chiacchierato in ordine alla vicenda, in modo tale da ledere la dignità dello zio defunto.
Ciò considerato, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalle parti civili, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando le ricorrenti anche al pagamento delle spese processuali.