Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva assolto un soggetto dal delitto di “falso”, contestato “in relazione alla dichiarazione di nullità matrimoniale del Tribunale Apostolico”.
In particolare, l’imputato era stato chiamato in giudizio “per rispondere delle imputazioni di tentata bigamia e di falso in atti pubblici, in certificati dello stato civile e scritture private” e “il giudice di primo grado aveva riqualificato i fatti ritenendo configurabili le fattispecie di “sostituzione di persona e falso materiale in atti pubblici”.
Nella specie, l’imputato, sposato, aveva intrapreso una relazione con un’altra donna, “dicendole di essere separato dalla moglie, di avere chiesto il divorzio e di avere concrete prospettive di un annullamento da parte della Sacra Rota”, tanto che “erano iniziati i preparativi del matrimonio, con rito religioso, fra i due ed era stato concepito un figlio”.
Tuttavia, qualche mese più tardi, la nuova compagna e i relativi genitori, insospettiti dal ritardo dell’uomo nel presentare i documenti relativi all’asserito divorzio e all’annullamento del primo matrimonio, effettuavano “autonome indagini”, scoprendo che “l’uomo non soltanto non si era mai separato dalla moglie, ma aspettava un figlio anche da lei”.
Il Tribunale, pronunciatosi in primo grado, aveva ritenuto che la condotta dell’uomo “non fosse univocamente indirizzata a contrarre un matrimonio avente effetti giuridici in costanza di un altro vincolo matrimoniale anch’esso con effetti civili” ma che la stessa fosse volta semplicemente a illudere la nuova compagna di essere libero, “allo scopo di continuare la relazione sentimentale con costei”.
Così argomentando, dunque, il Tribunale riqualificava il fatto contestato di “tentata bigamia” in “sostituzione di persona”.
La Corte d’appello, pronunciatasi in secondo grado, attribuiva “la qualifica di falso grossolano soltanto alla contraffazione della dichiarazione di nullità matrimoniale del Tribunale Apostolico, confermando la pronuncia di responsabilità in ordine agli altri addebiti”.
Giunti al terzo grado di giudizio, la Corte di Cassazione osservava come l’art. 494 codice penale, “sanziona, fra l’altro, la condotta di chi, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare un danno, si attribuisca un falso nome o un falso stato o una falsa qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici”.
Ebbene, secondo la Cassazione, “la condizione di uomo libero o sposato o divorziato o non più legato da un matrimonio religioso annullato dalla Sacra Rota, rappresenta certamente uno status dell’individuo a cui, fra l’altro, la legge attribuisce effetti giuridici”.
In proposito, la Corte precisava come la nozione di “vantaggio” implichi “un miglioramento che non necessariamente deve essere qualificabile in termini economici”, dovendo essere intesa in senso lato, comprendendo anche un “mutamento esistenziale percepito come positivo dall’agente o ad un accrescimento delle opportunità”.
Pertanto, secondo la Cassazione, “non si vede per quale motivo possa essere escluso dalla nozione di vantaggio, in questi termini delineata, l’avere instaurato o comunque mantenuto, per un apprezzabile lasso di tempo, una relazione affettiva e di convivenza”.
Quanto all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 494 codice penale, la Cassazione evidenziava come i progetti dell’imputato fossero da considerarsi “tutti a breve termine”, in quanto il medesimo “non aveva idea, nel lungo periodo, di come avrebbe fatto a risolvere la situazione creatasi fra la moglie legittima e la compagna di vita”.
Tuttavia, secondo la Corte, ciò non escludeva la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, “che si configura semplicemente nell’avere avuto di mira un vantaggio”, nei termini più sopra specificati.
Quanto al reato di “falso”, la Cassazione evidenziava come lo stesso fosse stato contestato in relazione ad una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (in cui si attestava l’intervenuto divorzio), un certificato anagrafico (con false indicazioni circa la residenza e lo stato di famiglia) ed un certificato di battesimo ad uso matrimonio (solo apparentemente emesso dalla Parrocchia).
In proposito, la Corte rilevava come tali falsificazioni sarebbero state riconoscibili solo a seguito di un attento esame dei particolari e “non certamente a seguito di un esame superficiale”.
Di conseguenza, secondo la Corte, non poteva parlarsi di “falso grossolano”, al contrario di quanto affermato dal giudice d’appello.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.