Nel caso esaminato dalla Cassazione, l’Ufficiale di stato civile aveva rifiutato di trascrivere l’atto di matrimonio celebrato tra due soggetti via internet e registrato dalle autorità del Pakistan.
In particolare, l’Ufficiale riteneva che le modalità di celebrazione del matrimonio, in via telefonica o telematica, fossero contrarie all’ordine pubblico (italiano), dal momento che “costituisce principio fondamentale dell’ordinamento italiano, derogabile solo in casi del tutto eccezionali, la contestuale presenza dei due nubendi dinanzi a colui che officia il matrimonio, anche al fine di assicurare la loro libertà nell’esprimere la volontà di sposarsi”.
In sostanza, secondo l’Ufficiale di stato civile, non è ammesso il matrimonio celebrato con modalità “telematiche”, in quanto non è assicurata la presenza fisica di entrambi i coniugi, ai quali, invece, deve essere garantita la piena libertà di esprimere il loro consenso al matrimonio.
I “coniugi, facevano, dunque, ricorso dinanzi al Tribunale, il quale veniva accolto.
Secondo il Tribunale, infatti, “il matrimonio era valido secondo la legge pakistana e, quindi, anche per l’ordinamento italiano, in virtù del richiamo operato dall’art. 28 della legge n. 218 del 1995, essendo stato celebrato secondo le modalità e nelle forme previste dalla legge pakistana”.
Di conseguenza, osserva il Tribunale, “il rifiuto di trascriverlo da parte dell’Ufficiale di stato civile italiano era illegittimo, non sussistendo alcuna violazione dell’ordine pubblico internazionale, atteso che la contestuale presenza dei nubendi dinanzi all’autorità officiante, ai sensi dell’art. 107 codice civile, non costituisce requisito irrinunciabile per la stessa legge italiana, la quale prevede eccezioni, a norma dell’art. 111 codice civile, essendo irrinunciabile il solo principio, rispettato nella fattispecie, della libera, genuina e consapevole espressione del consenso alla formazione del vincolo matrimoniale”.
A fronte di tale decisione, il Ministero dell’Interno presentava reclamo dinanzi alla Corte d’Appello, il quale, tuttavia, veniva rigettato, con la conseguenza che il Ministero medesimo provvedeva a proporre ricorso per Cassazione.
In sede di ricorso, in particolare, il Ministero ribadiva come l’atto matrimoniale in questione fosse contrario all’ordine pubblico italiano, “inteso come nucleo essenziale delle regole inderogabili e immanenti dell’istituto matrimoniale, in una situazione in cui per le modalità in cui il matrimonio era stato celebrato, senza la presenza fisica dei nubendi e grazie all’ausilio del mezzo di comunicazione via internet, non vi era alcuna garanzia che i nubendi avessero espresso liberamente e reciprocamente un consenso consapevole, anche per le difficoltà che caratterizzano l’uso di una lingua diversa dalla propria, in considerazione dell’alto valore dell’unione nuziale secondo la Carta costituzionale”.
Nemmeno la Corte di Cassazione, tuttavia, si trovava d’accordo con quanto espresso dal Ministero, rigettando il relativo ricorso.
Precisa la Cassazione, infatti, come i giudici dei precedenti gradi di giudizio avessero correttamente osservato che “ai sensi dell’art. 28 della legge n. 218 del 1995, il matrimonio celebrato all’estero è valido nel nostro ordinamento, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazionale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato comune di residenza in tale momento”.
Di conseguenza, essendo che, nel caso di specie, il matrimonio era stato celebrato in Pakistan, sulla base della legge vigente in tale Paese, esso era stato correttamente ritenuto valido per l’ordinamento italiano, senza che fosse riscontrabile alcuna violazione dell’ordine pubblico.
Secondo la Corte, infatti, non è possibile ravvisare una violazione dell’ordine pubblico dal semplice fatto che la legge straniera contiene una disciplina di contenuto diverso da quella prevista nell’ordinamento italiano, anche perché, in tal caso, sarebbero “cancellate le diversità tra i sistemi giuridici e rese inutili le regole del diritto internazionale privato”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal Ministero dell’Interno, confermando le sentenze rese nei precedenti gradi di giudizio.