Il giudice, nell’adottare tali provvedimenti, dovrà valutare le condizioni economico-patrimoniali dei due coniugi, onerando del pagamento dell’assegno il coniuge economicamente più forte, sulla base del principio fondamentale secondo cui i coniugi, dopo la fine del matrimonio, devono essere nelle condizioni di mantenere il tenore di vita di cui godevano in costanza di matrimonio.
Come detto, dunque, l’assegno di mantenimento dovrà essere proporzionato alle condizioni economiche dei coniugi, quali emergono dall’analisi del giudice, che valuterà il reddito, il patrimonio e le altre fonti di ricchezza di cui goda il coniuge.
Ma cosa succede se il coniuge, titolare di alcune quote azionarie di una società, provveda a venderle, proprio allo scopo di tentare di sottrarsi all’obbligo di mantenimento?
Proprio su un caso di questo tipo si è pronunciata la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18437 del 3 maggio 2016.
Nel caso esaminato dalla Corte, il marito aveva omesso di pagare l’assegno di mantenimento che il Tribunale aveva posto a suo carico, con la conseguenza che la moglie aveva proceduto a notificargli un atto di pignoramento.
Tuttavia, dopo la notifica del pignoramento, il marito provvedeva subito a vendere “le proprie quote di una società di cui era amministratore”, in modo che non gli venissero espropriate.
Di conseguenza, la moglie procedeva a denunciare il marito per il reato di “violazione degli obblighi di assistenza familiare”, di cui all’art. 570 codice penale, per avere lo stesso fatto mancare alla moglie e alla figlia i mezzi di sussistenza, nonché per il reato di “mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice”, di cui all’art. 388 codice penale.
Il Tribunale accoglieva la domanda proposta dalla moglie e la sentenza veniva confermata anche in secondo grado.
Il marito, quindi, proponeva ricorso per Cassazione, affermando, con riferimento al reato di cui all’art. 388 c.p., che “la Corte non aveva correttamente valutato la circostanza che la cessione delle quote societarie aveva in realtà ragioni esclusivamente economico-aziendali e le quote stesse non avevano alcun valore economico, il tutto poi a prescindere dalla osservazione che l'alienazione delle quote stesse era stata realizzata prima della notizia dei pignoramento, così che mancava l'elemento soggettivo del reato”.
Con riferimento, invece, al reato di cui all’art. 570 c.p., il condannato osservava come “la Corte territoriale non avesse valutato la concreta capacità economica dell'obbligato che era a capo di una società sostanzialmente decotta e che aveva corrisposto, seppure in modo parziale, quello che aveva potuto, così che anche per questa ipotesi difettava l'elemento soggettivo dei reato tanto più che non era stata sufficientemente motivata nemmeno l'effettiva sussistenza dello stato di bisogno della ex moglie”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non ritiene le argomentazioni svolte dal marito convincenti e rigetta il ricorso da questi proposto, confermando la sentenza di primo e di secondo grado.
Infatti, secondo la Cassazione, “l'alienazione delle quote sociali indicate al capo A doveva ritenersi un atto di sostanziale, dolosa elusione dell'obbligo di corresponsione di somme mensili a favore della moglie separata e della figlia minore”.