Ebbene, tale disposizione si applica anche ai c.d. lucernai?
Innanzitutto, è bene precisare che con il termine “lucernai” si fa riferimento a quelle finestre, meglio note come “velux”, caratterizzate dal fatto che non consentono di affacciarsi sul fondo del vicino e nemmeno di guardare di fronte, lateralmente o obliquamente, permettendo unicamente il passaggio della luce e dell’aria.
Proprio per le caratteristiche proprie dei lucernai, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4628 del 5 ottobre 2015, ha chiarito che la norma sulle distanze minime, di cui al d.m. n. 1444 del 1968 non si applicano anche ai lucernai.
Il caso esaminato dal Consiglio di Stato ha interessato due soggetti, proprietari di due porzioni abitative perfettamente aderenti alle pareti di un immobile di proprietà di una Casa di Riposo, che si ergeva sopra il colmo del tetto di circa un paio di metri.
In considerazione delle caratteristiche strutturali di tali unità immobiliari, i locali posti al primo piano delle abitazioni dei due soggetti in questione, prendevano aria e luce dai lucernai installati sul tetto.
Nel 2005, il Comune aveva rilasciato alla Casa di Riposo un permesso per l’adeguamento dell’immobile di sua proprietà, che prevedeva la sopraelevazione dell’immobile di circa 4-5 metri, “con l’effetto di ridurre la luce e l’aria agli ambienti situati al primo piano delle abitazioni” di proprietà dei due soggetti parti del giudizio.
Ritenendo illegittimo tale permesso di costruire, i due soggetti interessati si rivolgevano al Tar Veneto, al fine di ottenerne l’annullamento, in quanto la sopraelevazione avrebbe violato il limite di distanza delle pareti finestrate, di cui all’art. 9 del d.m. 1444/1968.
Il Tribunale, tuttavia, respingeva il ricorso, con la conseguenza che i ricorrenti impugnavano la decisione dinanzi il Consiglio di Stato.
I ricorrenti, in particolare, evidenziavano al Consiglio di Stato che “le norme sulle distanze tra edifici sono inderogabili” e tale inderogabilità attiene “ai rapporti tra privati, ai quali è precluso di disporre convenzionalmente una distanza inferiore rispetto quella prevista dall’art. 9 del D. M. 02/04/1968 o dai regolamenti urbanistici locali”.
Secondo i ricorrenti, inoltre, la disposizione in questione “dovrebbe ritenersi applicabile anche nel caso in cui la parete antistante sia in realtà un tetto dotato di aperture lucifere”.
Il Consiglio di Stato, tuttavia, non riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dai ricorrenti, rigettando il relativo ricorso e confermando la sentenza del Tar.
Evidenziava il Consiglio di Stato, infatti, l’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 non poteva trovare applicazione nel caso di specie, in quanto la norma “fissa la distanza minima che deve intercorrere tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”, facendo “espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere (…)unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci”.
Dunque, secondo il Consiglio, i velux in questione non potevano considerarsi “vedute”, ai sensi dell’art. 900 cod. civ., dal momento che gli stessi non consentono “né di affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)”, essendo gli stessi delle semplici “luci”, che consentono solo il passaggio di luce e aria.
Alla luce di tali considerazioni, il Consiglio di Stato riteneva che il Tar avesse del tutto correttamente escluso l’applicabilità al caso di specie dell’art. 9 del d.m. n. 1944 del 1968 e, di conseguenza, respingeva l’appello, confermando integralmente la sentenza di primo grado compensando tra le parti le spese del giudizio.