Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Catania aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di primo grado aveva rigettato l’impugnazione del licenziamento proposta da un lavoratore.
Il lavoratore, in particolare, era stato licenziato per “superamento del periodo di comporto” (vale a dire per il superamento del limite di assenze per malattia, di cui all'art. 2110 c.c.), che era stato “esaurito per assenze derivanti tutte da episodi infartuali o comunque sofferenze coronariche di cui il lavoratore era stato vittima”.
Ritenendo la decisione ingiusta, il lavoratore aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, infatti, la Corte d’appello non avrebbe adeguatamente tenuto in considerazione il fatto che, dagli accertamenti effettuati in corso di causa, era emerso che sussisteva un “nesso di causalità tra le mansioni del ricorrente (addetto alla manutenzione delle caldaie) e l'arterosclerosi coronarica e gli episodi infartuali” di cui era stato vittima.
Di conseguenza, secondo il ricorrente, la sussistenza di tale nesso di causalità comportava “la non computabilità, ai fini del superamento del periodo di comporto, delle assenze conseguenti a dette patologie e, quindi, l'illegittimità del licenziamento”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione al lavoratore, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
In proposito, la Cassazione osservava che la Corte d’appello aveva escluso, sulla base delle prove raccolte in corso di causa, che vi fosse “una qualche correlazione fra mansioni e ambiente lavorativo da un lato e patologia coronarica dall'altro”.
Evidenziava la Cassazione, inoltre, che nessuno degli episodi acuti di cui aveva sofferto il lavoratore si era verificato “in connessione con l'attività lavorativa e le mansioni affidategli (che non comportavano sforzi pesanti), mansioni che - anzi - erano state ripetutamente giudicate compatibili con il suo stato di salute”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal lavoratore, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.