Ai fini della concessione del buono pasto, come vanno considerati i permessi orari previsti dall’art. 33 della legge n. 104 del 1992?
La disciplina relativa ai buoni pasto è contemplata dal regolamento del Ministero dello Sviluppo economico n. 122 del 7 giugno 2017. La normativa richiamata definisce il buono pasto come "un servizio sostitutivo di mensa di importo pari al valore facciale del buono" e utilizzabile "esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche qualora l’orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto, nonché dai soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato".
La normativa deve, inoltre, essere letta congiuntamente con gli accordi derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale che, generalmente. disciplinano l’erogazione dei buoni pasto nel proprio settore di riferimento.
Il fine dei buoni pasto è quello di garantire il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa al lavoratore, obbligato a rendere la prestazione in un orario comprensivo della fisiologica pausa pranzo e in un luogo, la sede di lavoro, diverso dalla propria abitazione.
Secondo costante orientamento dell'ARAN, il presupposto essenziale ai fini dell'erogazione del beneficio - per la singola giornata lavorativa - è che sia effettuato un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore. Questa condizione vale per tutti i dipendenti e, quindi, anche per i lavoratori che usufruiscono dei permessi previsti dalla legge n. 104 del 1992.
Con riferimento a questi ultimi, occorre, infatti, considerare che i periodi di riposo in parola non possono configurarsi come attività lavorativa, in quanto il citato art. 33 stabilisce solo che gli stessi vengono retribuiti, ma non prevede espressamente che siano utili alla durata della prestazione lavorativa. Da ciò consegue che tali permessi non concorrono al completamento dell’orario di lavoro minimo previsto per il buono pasto.
Al riguardo, sembra ancora utile evidenziare che il buono pasto non ha natura retributiva e non rappresenta un beneficio che viene attribuito di per sé, ma è finalizzato a consentire al dipendente, laddove non sia previsto un servizio mensa, la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall'amministrazione per assicurare allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell'attività lavorativa dopo un periodo di sei ore, con la pausa.
La stessa giurisprudenza, interpellata sul punto, ha ritenuto di qualificare i buoni pasto non già come elementi della retribuzione, né come trattamenti necessariamente conseguenti alla prestazione di lavoro, ma come un beneficio conseguente alle modalità concrete di organizzazione dell’orario di lavoro (Cass., sent. n. 14388/2016).
I giudici attribuiscono, quindi, ai buoni pasto un carattere assistenziale volto a garantire una "finalità conciliativa tra le esigenze dell’organizzazione del lavoro con le esigenze quotidiane del lavoratore".
La medesima Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 16135 del 28 luglio 2020, ha addirittura attribuito alla corresponsione del buono pasto "una unilaterale revocabilità da parte del datore di lavoro", in tutti quei casi dove non si ravvisino più le condizioni di agevolazione nell’ambiente lavorativo che sono il presupposto per l’erogazione del servizio.
Data questa premessa, il diritto automatico ai buoni pasto viene meno in queste situazioni:
La disciplina relativa ai buoni pasto è contemplata dal regolamento del Ministero dello Sviluppo economico n. 122 del 7 giugno 2017. La normativa richiamata definisce il buono pasto come "un servizio sostitutivo di mensa di importo pari al valore facciale del buono" e utilizzabile "esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche qualora l’orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto, nonché dai soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato".
La normativa deve, inoltre, essere letta congiuntamente con gli accordi derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale che, generalmente. disciplinano l’erogazione dei buoni pasto nel proprio settore di riferimento.
Il fine dei buoni pasto è quello di garantire il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa al lavoratore, obbligato a rendere la prestazione in un orario comprensivo della fisiologica pausa pranzo e in un luogo, la sede di lavoro, diverso dalla propria abitazione.
Secondo costante orientamento dell'ARAN, il presupposto essenziale ai fini dell'erogazione del beneficio - per la singola giornata lavorativa - è che sia effettuato un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore. Questa condizione vale per tutti i dipendenti e, quindi, anche per i lavoratori che usufruiscono dei permessi previsti dalla legge n. 104 del 1992.
Con riferimento a questi ultimi, occorre, infatti, considerare che i periodi di riposo in parola non possono configurarsi come attività lavorativa, in quanto il citato art. 33 stabilisce solo che gli stessi vengono retribuiti, ma non prevede espressamente che siano utili alla durata della prestazione lavorativa. Da ciò consegue che tali permessi non concorrono al completamento dell’orario di lavoro minimo previsto per il buono pasto.
Al riguardo, sembra ancora utile evidenziare che il buono pasto non ha natura retributiva e non rappresenta un beneficio che viene attribuito di per sé, ma è finalizzato a consentire al dipendente, laddove non sia previsto un servizio mensa, la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall'amministrazione per assicurare allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell'attività lavorativa dopo un periodo di sei ore, con la pausa.
La stessa giurisprudenza, interpellata sul punto, ha ritenuto di qualificare i buoni pasto non già come elementi della retribuzione, né come trattamenti necessariamente conseguenti alla prestazione di lavoro, ma come un beneficio conseguente alle modalità concrete di organizzazione dell’orario di lavoro (Cass., sent. n. 14388/2016).
I giudici attribuiscono, quindi, ai buoni pasto un carattere assistenziale volto a garantire una "finalità conciliativa tra le esigenze dell’organizzazione del lavoro con le esigenze quotidiane del lavoratore".
La medesima Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 16135 del 28 luglio 2020, ha addirittura attribuito alla corresponsione del buono pasto "una unilaterale revocabilità da parte del datore di lavoro", in tutti quei casi dove non si ravvisino più le condizioni di agevolazione nell’ambiente lavorativo che sono il presupposto per l’erogazione del servizio.
Data questa premessa, il diritto automatico ai buoni pasto viene meno in queste situazioni:
- giorni di ferie;
- domeniche non lavorative e giornate festive non lavorate;
- permessi di lavoro di una giornata intera;
- permessi per la legge 104 di una giornata intera;
- periodi di aspettativa;
- congedi per maternità facoltativa;
- congedi per malattia e infortunio;
- giornate di sciopero;
- permessi sindacali.
È chiaro, quindi, che nel momento in cui un lavoratore usufruisce di una o più delle tre giornate previste mensilmente dall’articolo 33 della legge n. 104 del 1992, pur trattandosi di permessi “retribuiti”, non ha diritto a nessun buono pasto. Questo perché il buono pasto non è da interpretarsi come integrazione allo stipendio, ma solamente come benefit.
Diverso è il caso del permesso di poche ore: in questo caso si ha comunque diritto a ricevere il buono pasto, purché venga raggiunta la soglia di ore lavorate prevista dal proprio contratto.
Diverso è il caso del permesso di poche ore: in questo caso si ha comunque diritto a ricevere il buono pasto, purché venga raggiunta la soglia di ore lavorate prevista dal proprio contratto.