Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Genova aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di Massa aveva condannato i datori di lavoro di un soggetto per il reato di “lesioni personali” (art. 590 c.p.), commesso in danno del medesimo.
Nello specifico, la Corte d’appello aveva ritenuto i datori di lavoro responsabili per aver cagionato al dipendente “lesioni personali gravi consistite nella amputazione della falange distale 5^ del dito della mano sinistra, con indebolimento permanente dell'organo, determinata da una improvvisa discesa di una delle losanghe del macchinario cui era addetto in qualità di assemblatore”.
Secondo la Corte d’appello, infatti, l’infortunio in questione si era verificato perché i datori di lavoro non avevano provveduto “a predisporre un documento di valutazione dei rischi” e non avevano nemmeno adottato “adeguate misure tecniche e organizzative e a procedere alla formazione e informazione del lavoratore in ordine ai rischi connessi alle operazioni di smontaggio del sollevatore”.
Secondo la Corte, inoltre, i datore di lavoro non avrebbero “controllato che l'uso del macchinario fosse riservato a lavoratori dotati di informazione, formazione e addestramento adeguati”.
Ritenendo la decisione ingiusta, i datori di lavoro avevano deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza loro sfavorevole.
Secondo i ricorrenti, in particolare, il lavoratore si sarebbe infortunato “perchè aveva eseguito una procedura di smontaggio del tutto difforme da quella prevista nei manuali”, ponendo in essere, dunque, una “condotta abnorme”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione ai datori di lavoro, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, infatti, che la Corte d’appello aveva, in effetti, ritenuto provato che l’infortunato avesse “seguito una procedura del tutto difforme rispetto a quella evidenziata nel manuale d'uso, manutenzione e assemblamento, del quale egli aveva perfetta conoscenza” e che tale comportamento era stato tenuto “per ridurre i tempi della procedura”, nella convinzione che nulla sarebbe accaduto.
Evidenziava la Cassazione, inoltre, che, dagli accertamenti effettuati in corso di causa, era emerso “che questa era la normale prassi aziendale” per quella attività, con la conseguenza che non poteva ritenersi che l’infortunio si fosse verificato a causa di “una occasionale, quanto momentanea, distrazione del lavoratore, del tutto incompatibile con il tipo di intervento effettuato”.
Precisava la Cassazione, inoltre, che la Corte d’appello aveva rilevato “che il manuale esistente in azienda indicava sì la metodologia corretta per effettuare tali interventi, ma non specificava quali condotte dovevano essere evitate e i rischi che si correvano ponendole in essere”.
Pertanto, secondo la Corte, “non poteva dirsi adeguatamente adempiuto l'obbligo di formazione e informazione del lavoratore, il quale, certamente esperto del ‘bene operare’ (…), non lo era del ‘male operare’”.