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Immissioni intollerabili: quando č risarcibile il danno non patrimoniale?

Immissioni intollerabili: quando č risarcibile il danno non patrimoniale?
Il proprietario dell’appartamento limitrofo a quello da cui provengono immissioni illecite, di fumo, di calore, acustiche o simili, ha diritto al ristoro del pregiudizio subito anche in assenza di prova del danno alla salute.

Nei rapporti tra privati può accadere che il proprietario di un appartamento o di altro immobile, situato in prossimità dello stabile da cui provengono immissioni ritenute intollerabili patisca un disagio, dovuto al verificarsi di tali situazioni.

Di recente, la Corte di Cassazione esaminava un interessante caso in materia (Corte di Cassazione, ordinanza n. 23754/2018).
Le proprietarie di due appartamenti, adibiti a privata abitazione, agivano in giudizio nei confronti del proprietario di altro appartamento dello stabile perché fosse condannato a rimuovere la canna fumaria, allo scopo di eliminare fumi, odori, e calore prodotti dall'attività di ristorazione situata al piano terra dell'edificio. Le proprietarie chiedevano, poi, il risarcimento dei danni subiti a causa di tali "immissioni".

Il Tribunale, in primo grado, accoglieva la domanda riconoscendo, in favore di queste ultime, il risarcimento del danno non patrimoniale subito. La sentenza veniva confermata in appello.

La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto, chiariva che la conformità della canna fumaria rispetto alla normativa pubblicistica posta a protezione dell'ambiente non poteva ritenersi sufficiente per considerare le immissioni non intollerabili.

L’art. 844 c.c. nell'effettuare espresso riferimento ad immissioni che "superano la normale tollerabilità" non fornisce un criterio di tipo "matematico", con indicazione di dati precisi (pere esempio decibel per il rumore), in base ai quali stabilire in maniera certa la soglia di superamento di questo limite. La norma, al contrario, richiede un'analisi specifica della situazione concreta complessivamente considerata.

Pertanto, il concetto di tollerabilità, come specificato a più riprese dalla giurisprudenza, presenta una portata non assoluta, ma relativa e, quindi, riferibile alla situazione dei luoghi in concreto verificata e alla sensibilità dell’individuo che si trovi nella medesima condizione.

Sul punto, la giurisprudenza, in più occasioni, aveva già avuto modo di precisare che nessuna rilevanza assume in sede di giudizio civile il pieno rispetto degli "standard ambientali prescritti", essendo la norma di riferimento costituita piuttosto dall'art. 844 c.c. che regolamenta i rapporti tra privati (Corte di Cassazione, sent. n. 20198/2016). E', dunque, decisamente diversa la tutela in sede civile rispetto a quella amministrativa. Quest’ultima, infatti, si inserisce nell'ambito della regolamentazione dei rapporti cc.dd. "verticali" tra privati e Pubblica Amministrazione per il soddisfacimento di interessi di natura pubblicistica e allo scopo di assicurare, quantomeno, dei livelli minimi di quiete.

Pertanto, in sintesi, si può ritenere che le immissioni, se poste in essere nel mancato rispetto delle norme a tutela dell’ambiente, siano sicuramente illegittime, ma può accadere anche che le immissioni conformi agli "standard pubblicistici" siano ritenute invece intollerabili in sede civile, sulla base di una valutazione che tiene conto della situazione concreta di luoghi e persone e dei vari bilanciamenti da attuarsi.

Peraltro, in materia condominiale, osservava la Corte, si considera prevalente l’interesse del proprietario dell'immobile adibito a privata abitazione allo svolgimento della propria vita familiare, rispetto a quello puramente economico di chi esercita un'attività di tipo commerciale, nella zona limitrofa o confinante (in questo caso ristorante al piano terra del medesimo edificio condominiale).

La Corte di Cassazione precisava, inoltre, che l’effetto delle immissioni illecite, siano esse di stampo acustico, olfattivo o altro, ben può essere quello di impedire il regolare e ordinario svolgimento della vita familiare e personale del soggetto che vi è esposto, dando luogo ad un pregiudizio risarcibile, purché, beninteso, adeguatamente provato.

Nel caso esaminato, dalle prove agli atti del giudizio, emergeva un quadro probatorio sufficientemente chiaro e completo della situazione.

Concludeva la Corte di Cassazione che non è necessaria la prova di un danno biologico (alla salute) dell'individuo, essendo sufficiente la dimostrazione della lesione del diritto al normale svolgimento della vita personale e familiare che costituisce danno non patrimoniale risarcibile ai sensi all'art. 2059 del codice civile.






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