Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Roma aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva condannato il padre di un ragazzo per aver “dal proprio appartamento, con emissioni sonore prodotte dall’impianto stereo e, comunque, omettendo di adottare le dovute cautele, arrecato disturbo al riposo e alle occupazioni dei vicini”.
Il condannato, ritenendo la sentenza ingiusta, proponeva ricorso in Cassazione, rilevando la “mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione” della sentenza di secondo grado.
Secondo il ricorrente, in particolare, “i rumori potevano essere sentiti soltanto nell’appartamento delle persone offese C. mentre nessuno degli altri condomini aveva avvertito la musica” e la Corte d’appello aveva erroneamente ritenuto irrilevante tale fattore.
Quanto sostenuto dal padre trovava riscontro “nel fatto che molti dei condomini dell’immobile che erano stati sentiti avevano dichiarato non di avere sentito la musica senza che questa desse loro fastidio, ma di non averla proprio sentita”.
Pertanto, secondo il ricorrente, la condotta posta in essere non aveva comportato la “lesione di una indeterminata pluralità di persone quale elemento necessariamente richiesto per la integrazione del reato”.
Il ricorrente, inoltre, evidenziava come la condotta contestata fosse stata posta in essere dal figlio minore (vicino, tuttavia, alla maggiore età) e come l’imputato non rivestisse una posizione di garanzia nei confronti del medesimo, ai sensi dell’art. 2048 del c.c., in quanto, se tale norma trovasse applicazione, si giungerebbe alla conclusione “che ogni reato commesso da un minore dovrebbe essere automaticamente imputato a norma dell’art. 40 del c.p. al genitore”.
Secondo il ricorrente, “dovrebbe più correttamente evocarsi la culpa in vigilando, che tuttavia, come affermato dalla più recente giurisprudenza civile, non sussisterebbe ove il minore sia vicino alla maggiore età”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso.
Secondo la Cassazione, infatti, la sentenza impugnata aveva “chiaramente ed analiticamente riportato gli elementi di prova dai quali doveva ritenersi che i rumori fossero stati percepiti ben al di là addirittura dell’ambito condominiale in particolare richiamando le deposizioni dei testi F. e P. , entrambi appartenenti alla polizia municipale, secondo cui la musica ad alto volume si percepiva già ad ottanta metri di distanza dal condominio”.
Evidenziava la Corte, inoltre, come “al di là dell’improprio richiamo effettuato, per sostenere la responsabilità dell’imputato, agli obblighi discendenti dalla sua qualità di proprietario ed abitante dell’immobile dal quale i rumori si diffondevano, posto che il danno non è stato, nella specie, come correttamente rilevato dal ricorrente, prodotto dall’immobile in sé (come richiesto dall’art. 2051 del c.c.) ma dagli apparecchi di riproduzione musicale attivati dal figlio, la sentenza ha posto in evidenza la posizione di garanzia data dall’esercizio della potestà genitoriale sul figlio minore autore, come appena detto, delle propagazioni rumorose”.
I giudici di merito, secondo la Corte, aveva correttamente richiamato tale fonte di responsabilità, dal momento che, ai sensi dell’art. 40 del c.p., “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” e non può esservi dubbio che tra gli obblighi giuridici richiamati da tale norma debba ricomprendersi anche quello discendente dalla responsabilità genitoriale nei confronti dei figli minori, essendo i genitori “responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori…” secondo quanto previsto dall’art. 2048 c.c”.
Infatti, proseguiva la Corte, “la responsabilità dei genitori per i fatti illeciti commessi dal minore con loro convivente, prevista dall’art. 2048 c.c., è correlata ai doveri inderogabili posti a loro carico all’art. 147 del c.c.. ed alla conseguente necessità di una costante opera educativa, finalizzata a correggere comportamenti non corretti ed a realizzare una personalità equilibrata, consapevole della relazionalità della propria esistenza e della protezione della propria ed altrui persona da ogni accadimento consapevolmente illecito”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, confermando la sentenza impugnata e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.