Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Bologna, confermando la sentenza di primo grado, resa dal Tribunale della stessa città, aveva condannato un imputato per il reato di “stalking” (art. 609 bis c.p.), “perché in stato di ubriachezza, colpendola con schiaffi e gettandola sul letto, colpendola con un cutter, costringeva P.J. a subire atti sessuali, consistiti in almeno tre rapporti sessuali completi”, nonché per il reato di “maltrattamenti in famiglia” (art. 572 c.p.), perché, “picchiando la convivente P.J. e rinfacciandole continuamente l’assenza della verginità al momento del loro incontro, la maltrattava con continue vessazioni fisiche e psichiche”.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’imputato decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, infatti, il Giudice l’aveva condannato sulla base delle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, che dovevano, invece, considerarsi inattendibili, nonché smentite dall’esito negativo della visita ginecologica, che avrebbe dovuto rilevare la sussistenza dei fatti contestati.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione all’imputato, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Secondo la Cassazione, infatti, la Corte d’appello aveva adeguatamente e coerentemente motivato la propria decisione, considerando attendibile la persona offesa, in considerazione “di tutte le dichiarazioni e circostanze del caso concreto e di tutti gli elementi acquisiti al processo”.
Osservava la Cassazione, peraltro, che la Corte d’appello aveva evidenziato che “la ragazza aveva confidato della grave situazione nella quale il suo rapporto di convivenza con l’imputato era precipitato, riferendo della costrizione ai rapporti sessuali e delle botte alla collega di lavoro B.R. e finanche ai propri datori di lavoro, i quali, proprio dopo l’episodio finale che aveva posto fine alla convivenza, le avevano dato ospitalità”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato, confermando integralmente la sentenza di condanna di secondo grado e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.