La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 32391 del 5 luglio 2017, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Milano aveva condannato un soggetto alla pena di sei mesi di reclusione, in quanto questi aveva dato alloggio, dietro pagamento di un corrispettivo, a degli stranieri privi di permesso di soggiorno (art. 12, decr. legisl. n. 286 del 1988 – Testo Unico della disciplina dell’immigrazione).
Nello specifico, era stato accertato che in un appartamento di proprietà dell’imputato, si svolgeva attività di prostituzione da parte di alcune donne cinesi irregolari.
In un altro appartamento dello stesso stabile, sempre di proprietà dell’imputato, inoltre, era stato ritrovato un cittadino brasiliano senza permesso di soggiorno, che aveva dichiarato di aver stipulato con l’imputato un contratto di locazione, a nome di un’altra persona, per un solo mese e con previsione di un canone pari a Euro 850.
Dall’istruttoria effettuata in corso di causa, inoltre, era emerso che il cittadino brasiliano, in realtà, pagava un canone di euro 1.500 mensili e che era l’imputato stesso a ritirare il denaro, sapendo, peraltro, che l’inquilino si prostituiva.
Secondo il giudice, dunque, la condotta posta in essere dall’imputato aveva determinato per lo stesso un ingiusto profitto, derivante dall’applicazione di condizioni contrattuali più gravose rispetto ai valori di mercato.
Secondo il Tribunale, inoltre, l’imputato avrebbe profittato della condizione di irregolarità dei soggetti stranieri.
La Corte d’appello, tuttavia, assolveva l’imputato, osservando come non risultasse provato che l’imputato avesse voluto “trarre profitto dalla condizione di clandestinità degli inquilini” e come non si potesse parlare di “canone di locazione esorbitante rispetto a quello normalmente praticato”.
Ritenendo la decisione ingiusta, il Procuratore Generale della Repubblica decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.
Osservava il Procuratore ricorrente, in particolare, che, nel caso di specie, non sarebbe nemmeno stata possibile la registrazione dei contratti di locazione in questione, “a causa della condizione di irregolarità degli stranieri e quindi, quanto meno, l'ingiusto profitto vi era stato nel corrispettivo non sottoposto a prelievo fiscale”.
Secondo il ricorrente, inoltre, appariva “inverosimile che la differenza tra il canone del contratto (Euro 850,00) e il canone realmente pagato (Euro 1.500,00) fosse imputabile a spese condominiali pari ad Euro 650,00 mensili per un piccolo appartamento in zona non lussuosa”.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover dar ragione al Procuratore, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Secondo la Cassazione, infatti, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 12 del d. lgs. n. 286/1998 (T.U. della disciplina dell'immigrazione), “è richiesto il fine di trarre un ingiusto profitto dalla locazione ovvero dal dare alloggio ad uno straniero privo di titolo di soggiorno, fine che può essere desunto da condizioni contrattuali oggettivamente più vantaggiose per l'agente”.
Non è necessario, tuttavia, che tali condizioni contrattuali si traducano in una prestazione eccessivamente gravosa per lo straniero.
Secondo la Cassazione, inoltre, ai fini della configurabilità del reato, non è nemmeno necessario che il profitto sia collegato allo sfruttamento della condizione di irregolarità dello straniero, essendo sufficiente che “la illegalità della condizione della persona straniera abbia reso possibile o anche solo agevolato la conclusione del contratto a condizioni oggettivamente più vantaggiose per la parte più forte”.
Nel caso in esame, dunque, il giudice di primo grado aveva correttamente sottolineato “l'esistenza di contratti relativi ad un periodo temporale molto limitato e mai registrati, riportanti un canone che era circa la metà di quanto realmente corrisposto dai soggetti stranieri”.
Inoltre, secondo la Cassazione, il fatto che non esistevano contratti regolari (che non sarebbe nemmeno stato possibile stipulare), rendeva evidente “la precarietà del rapporto” in sfavore dei clandestini, con conseguente ingiusto profitto dell’imputato, che aveva ricevuto un corrispettivo non sottoposto a prelievo fiscale.
Ciò considerato, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica, annullando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima decidesse nuovamente sulla questione, in base ai principi sopra enunciati.