E’ proprio questo, infatti, quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29705 del 2016.
Nel caso esaminato dalla Corte, il giudice di secondo grado, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, aveva rideterminato la pena inflitta ad un imputato del reato di stalking.
Avverso tale sentenza, l’imputato decideva di proporre ricorso per Cassazione, affermando che, nella sentenza di condanna, erano “riportati suoi comportamenti posti in essere successivamente al mese di settembre 2011”, mentre “l’unico episodio addebitabile era quello in cui, uscito dalla casa di lavoro e gravemente malato, si era recato presso l’abitazione dei genitori e, vistosi respinto, si era creato un giaciglio di fortuna nel sottoscale dell’abitazione di quest’ultimi”.
Pertanto, secondo il ricorrente, “non si erano verificate delle reiterate condotte di molestia, ma una unica condotta necessitata, peraltro, dal bisogno di trovare un ricovero e di essere curato”.
La Corte, tuttavia, non riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso.
Osserva la Cassazione, infatti, che, con il ricorso, l’imputato ha voluto “sollecitare il giudice di legittimità ad una inammissibile rivalutazione contenutistica degli elementi di prova già ampiamente scrutinati dai giudici di merito”, in contrasto con quanto stabilito dall’art. 360 codice di procedura civile.
Inoltre, secondo la Corte, non era possibile accogliere la censura relativa alla mancanza delle pluralità delle condotte lesive, necessarie ai fini di integrare il reato di cui all’art. 612 bis c.p.c.
Occorre ricordare, infatti, che tale articolo richiede, ai fini della configurabilità del reato, che vengano poste in essere una serie di condotte tali da ingenerare nelle vittime un perdurante stato d’ansia o di paura, o tali da ingenerare il timore del pericolo di un danno grave per sé o per un prossimo congiunto.
Ciò, secondo, la Corte, in effetti si era verificato, dal momento che, “dalle dichiarazioni delle persone offese si evince una abitualità di condotte plurioffensive, poste in essere dall’imputato nei confronti dei genitori, con comportamenti vessatori ed opprimenti”, ben descritti nel capo di imputazione.
Secondo la Corte, peraltro, “anche la condotta di bivaccare nel sottoscale dell’edificio ove abitano i genitori integra una condotta di per sé minacciosa nei confronti delle persone offese, e ciò anche se si considera che tale presenza era diretta ad ottenere continuamente denaro ed altre utilità economiche dai genitori”.
Alla luce di tali circostanze, la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.