La tesi difensiva sosteneva che la donna non avesse alcun diritto sulla parte di stipendio di cui le era stata chiesta la restituzione, poiché versata in eccesso rispetto a quanto previsto dal contratto concluso con il datore di lavoro. Era stata presentata una perizia da cui risultava che lo stipendio corrisposto alla donna era pari a quanto a lei dovuto.
Secondo la Corte ciò che importa disvalore penalistico della condotta, secondo la massima in commento, non è tanto l’elusione delle prescrizioni che governano il rapporto lavorativo, bensì le modalità con cui tale risultato venga raggiunto.
Costringere il lavoratore a restituire in contanti parte dello stipendio ricevuto, sotto la minaccia di comminargli il licenziamento, integra il delitto di estorsione se commesso dal datore di lavoro, secondo la costante giurisprudenza della Corte: “approfittare della situazione del mercato a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributiva trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi”.
In tali circostanze, per la sentenza, non risulta applicabile neanche la condizione attenuante di cui all’art. 62, comma 4, del Codice Penale, applicabile nell’ipotesi in cui venga cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, stante gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona destinataria delle minacce.