A tal riguardo, va introduttivamente ricordato che l’assegnazione della casa familiare è un istituto previsto dall’art. 337 sexies c.c. volto a tutelare la prole nella fase della dissoluzione del nucleo familiare d’origine. La norma citata, infatti, prevede che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli”, con lo scopo di assicurare proprio a questi ultimi una speciale protezione, consentendo loro di continuare a permanere, insieme al genitore affidatario o collocatario, nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti senza sottoporli all’ulteriore trauma del distacco dal loro habitat, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini.
Proprio in considerazione di tale ratio protettiva, per pacifica giurisprudenza il provvedimento di assegnazione della casa coniugale in sede di separazione e divorzio è subordinato alla presenza di figli conviventi (minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti).
Ebbene, con l'ordinanza n. 10453 del 31 marzo 2022, la Corte di Cassazione ha affermato che, proprio in ragione dell’esigenza di tutela sopra ricordata, il provvedimento di assegnazione della casa familiare deve essere revocato “in ogni caso in cui, a seguito della separazione, la casa familiare abbia cessato di essere tale” in quanto “non può assolvere alla funzione sua propria di preservare la continuità delle abitudini e delle relazioni domestiche dei figli nell'ambiente nel quale durante il matrimonio esse si sviluppavano”.
Nell’enunciare tale principio, peraltro, la Suprema Corte ha operato un’importante precisazione in tema di onere probatorio, chiarendo che colui che agisca per la revoca dell’assegnazione della casa familiare ha l’onere di provare in modo inequivoco il venir meno dell’esigenza abitativa con carattere di stabilità, cioè di irreversibilità, prova che deve essere particolarmente rigorosa in presenza di prole affidata o convivente con l’assegnatario.
La vicenda concreta giunta all’attenzione della Suprema Corte, in particolare, vedeva come protagonista una famiglia disgregatasi nel 2018. Con la sentenza di divorzio, nello specifico, la casa coniugale, di proprietà dell’ex marito, era stata assegnata all’ex moglie, quale genitore collocatario del figlio minore. Successivamente, però, il padre aveva appreso che la moglie esercitava la professione di medico presso una struttura universitaria sita in un’altra città ove disponeva di un immobile e ove mandava a scuola il figlio, con il quale tornava solo sporadicamente nella casa in cui avevano vissuto in costanza di matrimonio.
L’ex marito, per tale ragione, aveva presentato ricorso per la revoca dell’assegnazione della casa familiare e il Tribunale lo aveva accolto.
Avverso tale decreto aveva proposto reclamo l’ex moglie, ma tale impugnazione non aveva trovato accoglimento, sicchè la stessa aveva presentato ricorso in Cassazione. La ricorrente, in particolare, si doleva del vizio di violazione di legge in quanto non era stato considerato che il suo trasferimento non era definitivo, avendo ella in programma di ritrasferirsi nella città d’origine. Ritenendo tale ricorso infondato, la Corte ha dunque operato le importanti precisazioni sopra riportate.