Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello aveva confermato la condanna dell’imputato per tale fattispecie, in quanto lo stesso era stato sorpreso nell’area esterna del luogo di detenzione.
L’imputato proponeva, dunque, ricorso per Cassazione, evidenziando la sua innocenza, in quanto egli era stato semplicemente colto, in abbigliamento casalingo e con una scopa in mano, mentre spazzava vicino al cancello dell’abitazione.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dall’imputato, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Evidenziava la Cassazione, infatti, come il reato di cui sopra presupponga che l’imputato si allontani dall’abitazione presso la quale deve scontare la misura cautelare degli arresti domiciliari, precisando che per “abitazione” deve intendersi “il luogo in cui la persona conduce la propria vita domestica e privata, con esclusione di ogni altra appartenenza, quali aree condominiali, dipendenze, giardini, cortili e spazi simili, che non ne costituiscano parte integrante”.
Secondo la Cassazione, in proposito, occorreva ribadire il principio già espresso in precedenti sentenze, in base al quale “la piena equiparazione stabilita dall’ordinamento tra arresti domiciliari e custodia cautelare in carcere (art. 284 del c.p.p., comma 5), richiede che la misura domiciliare si svolga, per quanto possibile, secondo modalità analoghe rispetto a quelle proprie della misura intra muraria, dovendosi pertanto dare esclusiva rilevanza allo spazio fisico delimitato dall’unità abitativa (domicilio) indicata dall’interessato ed autorizzata dal giudice”.
Le uniche eccezioni che si possono fare a tale principio sono quelle relative a “quegli ambiti parzialmente aperti (balconi, terrazzi) o scoperti (cortili interni, chiostrine e simili), ma costituenti parte integrante dell’unità immobiliare di riferimento”.
Evidenziava la Cassazione, infatti, come “il fine primario e sostanziale della misura coercitiva (…) è quello di impedire i contatti con l’esterno ed il libero movimento della persona, quale mezzo di tutela delle esigenze cautelari, che può essere vanificato anche dall’intrattenersi negli spazi condominiali comuni”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.