La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 30349 del 16 giugno 2017, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Sorveglianza di Bologna aveva concesso gli arresti domiciliari (art. 16 nonies, legge n. 82 del 1991) ad un soggetto.
Con un successivo provvedimento, il Giudice del Tribunale di Sorveglianza di Firenze aveva autorizzato, per motivi di lavoro, il detenuto domiciliare a uscire dall’abitazione, in determinati orari, nonché a spostarsi nella Provincia di residenza per esigenze di vita.
In seguito, il detenuto domiciliare aveva chiesto al Giudice di essere autorizzato a portare il figlio a scuola e di portarlo a svolgere varie attività sportive, evidenziando che la sua compagna era partita per il Perù, al fine di dare assistenza al padre.
Il Giudice aveva, tuttavia, rigettato la richiesta, osservando che al detenuto domiciliare erano già state delle autorizzazioni orarie di uscita dall’abitazione piuttosto ampie.
Ritenendo la decisione ingiusta, il detenuto domiciliare decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, evidenziando la sussistenza di un “interesse attuale e concreto” ad ottenere la richiesta autorizzazione, “nonché il diritto costituzionale del padre di garantire al figlio le attività di studio e le esigenze sanitarie, tutelate dall’art. 284 cod. proc. pen.”.
Precisava il ricorrente, infatti, che gli orari di uscita consentiti non gli permettevano di provvedere alle esigenze del figlio e che il provvedimento di rigetto dell’istanza era “sostanzialmente privo di motivazione”, dal momento che non era stato giustificato sulla base del pericolo di commissione di nuovi reati o da esigenze di sicurezza.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover dar ragione al detenuto, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Osservava la Cassazione, infatti, che il provvedimento di rigetto del Tribunale era, effettivamente, privo di motivazione, in quanto il Giudice si era limitato ad affermare che l’istanza non poteva essere accolta “in considerazione dell’ampiezza delle autorizzazioni già fruite dal condannato”.
Questa motivazione, secondo la Cassazione, non poteva considerarsi adeguata rispetto a quanto richiesto, dal momento che la stessa non aveva preso assolutamente in considerazione “le esigenze prospettate dal detenuto domiciliare né il tema della loro fondatezza e della loro compatibilità con l’insieme delle prescrizioni imposte e delle esigenze di sicurezza pubblica”.
Evidenziava la Cassazione, in proposito, che, ai sensi dell’art. 284, comma 3, c.p.p., “se l’imputato non può altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita ovvero versa in situazione di assoluta indigenza, il giudice può autorizzarlo ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario per provvedere alle suddette esigenze ovvero per esercitare una attività lavorativa”.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, se sussistono “indispensabili esigenze di vita”, che rendono necessario (e non solo opportuno) consentire l’allontanamento del detenuto domiciliare dal luogo di arresto, il Giudice deve accogliere la richiesta eventualmente avanzata in tal senso.
Nel caso di specie, invece, il Giudice aveva rigettato la richiesta a priori, senza accertare la fondatezza delle ragioni poste alla base della stessa.
Ciò considerato, la Cassazione accoglieva il ricorso proposto dal detenuto, annullando il provvedimento impugnato e rinviando la causa al Tribunale, affinchè il medesimo decidesse nuovamente sulla questione, sulla base dei principi sopra enunciati.