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Affitti commerciali e Coronavirus (Covid-19)

Affitti commerciali e Coronavirus (Covid-19)
Cosa accade se il conduttore non paga l'affitto (canone) a causa della crisi generata dalla pandemia di Coronavirus?
I provvedimenti di emergenza adottati dal Governo per contenere il contagio da Covid-19 hanno comportato, com’è noto, la temporanea chiusura di molte attività, produttive e commerciali, considerate non essenziali.

Il forzato “stop” sta indubbiamente causando rilevanti danni economici alle imprese destinatarie delle misure di contenimento, i cui risvolti appaiono particolarmente drammatici soprattutto nel caso di attività imprenditoriali di piccole o medie dimensioni.

Oltre alla perdita di ricavi, le imprese si trovano comunque a dover sostenere dei costi: tra i più rilevanti c’è quello relativo al canone di locazione degli immobili in cui viene esercitata l’attività.
Quali sono le conseguenze, e quali sono gli effetti giuridici, della obbligatoria chiusura della maggior parte degli esercizi commerciali causata dalla pandemia di Coronavirus sui contratti di locazione in essere? Dal momento che il conduttore si trova, in tali casi, nella condizione di non poter utilizzare l’immobile, almeno nella modalità tradizionale di vendita al dettaglio con accesso della clientela ai locali (potrebbe però, in certi casi, spedire la merce presente nel negozio con corriere espresso e ricevere gli ordini da un sito web), quali sono, se ci sono, le conseguenze di un tale stato di fatto sul pagamento dell'affitto (canone)?

Più in generale, quali sono le conseguenze sull’equilibrio contrattuale delle locazione, su rapporto diritti-doveri delle parti, sull'eventuale responsabilità delle parti e, in ultima analisi, sulla sopravvivenza stessa del rapporto contrattuale?

Per andare al concreto e al portafogli: se sono il conduttore di un immobile ad uso non abitativo, posso legittimamente rifiutarmi di pagare il canone per il periodo in cui l’esercizio è chiuso per effetto di disposizioni di legge o di atti aventi forza di legge (leggasi: restrizioni per pandemia Coronavirus)?
È eventualmente ammissibile, in alternativa, una riduzione dell'ammontare del canone? Oppure: Il contratto può o deve sciogliersi? Se si, in che modo?

Non è facile, in realtà, dare una risposta a queste domande. Infatti, se, da un lato, il codice civile sembra contenere già, in sé, gli strumenti per risolvere il caso, è anche vero che la situazione in cui attualmente ci troviamo si presenta come assolutamente inedita, e pertanto non è possibile fare riferimento a eventuali precedenti giurisprudenziali per aiutarsi a sbrogliare l'assai intricata matassa.

Occorrerà, invero, ricercare, per quanto più possibile, soluzioni pratiche e concordate (tra locatore e conduttore), onde evitare sia i maggiori costi che il ricorso alla Giustizia inevitabilmente comporterebbe (oltre alle tristemente note lungaggini), sia che i Tribunali vengano sommersi a breve da una mole esorbitante di procedimenti di sfratto e di cause ordinarie , con tutte le immaginabili conseguenze per un sistema già in difficoltà in tempi normali.

Vediamo ora quali appigli normativi vengono offerti per dare soluzione al caso.

Partiamo dalle norme "eccezionali" emanate in sede di emergenza. Queste, invero, forniscono solo alcune indicazioni e, a ben vedere, nessuna è sufficiente a scongiurare un possibile contenzioso.
La norma che qui più interessa è l'art. 3, comma 6 bis del D.L. n. 6 del 23/02/2020 (comma aggiunto dall’art. 91, comma 1, D.L. 17 marzo 2020, n. 18), che recita come segue:

il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

Ma cosa prevede l'art. 1218 del codice civile, citato dal D.L. n. 6/2020 sopraccitato? Vediamo come recita letteralmente la norma:

"Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta, è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile".

Ai sensi dell’art. 1223 c.c., invece:

"Il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta".

Riguardo, in particolare, l’art. 1218 c.c., non può dubitarsi che le misure di contenimento alla diffusione del virus introdotte dal Governo possano esse stesse costituire (in specifici casi e non nella generalità delle situazioni e dei rapporti) - ragione di “impossibilità della prestazione derivante da causa [...] non imputabile” al debitore.

Si tratta, però, di una previsione che riguarda la (gradazione della) responsabilità per inadempimento del debitore, e dunque utile semmai ai fini della valutazione della risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 c.c., che recita come segue:

"Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno [...]".

In pratica, se c'è inadempimento, ma questo è incolpevole perché dovuto a forza maggiore o caso fortuito, allora sarà sempre possibile chiedere la risoluzione del contratto ma non si potrà invece pretendere il risarcimento del danno, a norma del citato art. 1218 c.c.

Altra norma da tenere presente è costituita dall'art. 1256 c.c., che distingue tra impossibilità definitiva e temporanea:

"L'obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile.
Se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento. Tuttavia l'obbligazione si estingue se l'impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla".

In tema di risoluzione del contratto, è inoltre importante ricordare che per attuarla non è sufficiente un inadempimento "qualsiasi", ma deve trattarsi di inadempimento grave, ai sensi dell'art. 1455 c.c.:

"Il contratto non si può risolvere se l'inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse dell'altra"

Appare inevitabile, a questo punto, aprire una parentesi sulla valutazione di cosa deve intendersi per "scarsa importanza", con specifico riferimento alle locazioni di immobili ad uso commerciali.
In proposito una recente sentenza della Cassazione (Sez. III, ord. n. 3966/2019) ha chiarito che l'art. 5 della legge n. 392 del 1978 (c.d. legge sull'equo canone), che ha predeterminato la gravità dell'inadempimento ai fini della risoluzione del contratto, trova applicazione esclusivamente per le locazioni ad uso di abitazione, e non è estensibile al tipo contrattuale della locazione per uso diverso dall'abitazione. Pertanto, conclude la Suprema Corte, "per il tipo contrattuale della locazione per uso diverso dall'abitazione resta operante il criterio della non scarsa importanza dell'inadempimento stabilito dall'art. 1455 c.c., nulla peraltro impedendo che il mancato pagamento del canone, pur ponendosi in contrasto con una delle obbligazioni principali del conduttore, possa, per il concorso di determinate circostanze, da apprezzare discrezionalmente dal giudice di merito, essere valutato ai sensi dell'art. 1455 c.c., come un inadempimento di scarsa importanza, come tale non idoneo a provocare la risoluzione".

C'è poi anche da valutare l'art. 1456 c.c., che regola la cosiddetta "clausola risolutiva espressa"

"I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite.
In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all'altra che intende valersi della clausola risolutiva
".

Ora, è possibile che in un contratto di locazione ad uso non abitativo sia stata inserita, appunto, una clausola risolutiva espressa, con cui viene pattuito che il mancato pagamento anche di una mensilità soltanto (o di due successive) del canone porti alla risoluzione di diritto del contratto. Questo significa che tutti i contratti che includono la previsione di una simile clausola - ove tale accadimento si sia verificato in questi giorni a causa delle note vicende - devono intendersi risolti di diritto?
In realtà, ci sembra di dover dire che anche in presenza di una clausola risolutiva espressa non può prescindersi dalla imputabilità dell'inadempimento: ma può considerarsi "non imputabile" il mancato pagamento del canone nell'attuale situazione? Che significato ha il termine "imputabilità"? Ne parleremo tra poco, a proposito della impossibilità sopravvenuta della prestazione.

Questa è disciplinata dall'art. 1463 c.c., che prevede quanto segue:

"Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito".

La prima possibilità - invero assai forzata - è di leggere la norma "in chiave locatore".
Qualcuno, infatti, ha già provato a sostenere che la prestazione che è divenuta impossibile in seguito ai noti eventi è quella del locatore. La conseguenza immediata sarebbe, conformemente a quanto appena letto nella succitata norma, che quest'ultimo non potrebbe esigere il pagamento del canone dal conduttore, essendo questa la controprestazione.
Ma esiste davvero una prestazione del locatore che possa in tal modo dirsi inadempiuta?
Ricordiamo che, secondo l’art. 1575 c.c., costituiscono obbligazioni del locatore
  • quella di consegnare al conduttore la cosa locata in buono stato di manutenzione;
  • quella di mantenerla in stato da servire all'uso convenuto e
  • quella di garantirne il pacifico godimento durante la locazione.
Tra queste, quale sarebbe l'obbligazione inadempiuta dal locatore, che legittimerebbe il conduttore a sospendere, a sua volta, la propria controprestazione di pagamento del canone? Di sicuro ne la prima, che è già stata eseguita nel momento di avvio del contratto. La seconda, in ipotesi, potrebbe anche esserlo, ma esula dall'attuale indagine ed è un motivo indipendente. Rimane solo la terza: garantire al locatore il pacifico godimento del bene locato. Si dovrebbe sostenere, quindi, che il conduttore, in ragione dei fatti pandemici, non può godere liberamente dell'immobile e per questo motivo nulla deve più al proprietario. Il proprietario non gli garantisce il godimento (pacifico) del bene, lui non gli paga il canone dovuto. Pari. Quando, un giorno, forse, le cose dovessero rimettersi a posto e sarà possibile di nuovo alzare le serrande, allora, se tutto va come deve, il conduttore riprenderà a pagare regolarmente il canone. Fino a quel giorno chi ci deve rimettere è il proprietario.
Una simile interpretazione - giuridicamente orripilante - costituirebbe, con ogni evidenza, un'indebita forzatura. Infatti, la garanzia del pacifico godimento va intesa semplicemente come protezione da molestie di diritto di terzi, e questo non è, evidentemente, il caso. La chiusura dell’esercizio commerciale imposto sulla base di norme di legge o aventi forza di legge per pandemia non è una "molestia di diritto". Invero, il caso di scuola tipico sempre esposto dai manuali di diritto per spiegare questo turbamento nel godimento, è quello di un'azione di rivendicazione sull'immobile locato. Un soggetto terzo - mai visto prima - spunta fuori dal nulla e si dichiara proprietario dell'immobile locato e ne rivendica la proprietà dal titolare apparente, il quale, se si dovesse soccombere nel giudizio instaurato dal terzo (giudizio, cosiddetto, "petitorio"), si troverebbe nella impossibilità di continuare a garantire la disponibilità dell'immobile al conduttore a cui era stato locato. Caso limite, che, come tutti capiscono, non ha nulla ha a che fare con la situazione pandemica.

E se leggessimo, invece, la norma "in chiave conduttore"? Ovvero: può il conduttore sostenere che, in virtù della forzata chiusura della propria attività dovuta alle misure anti Covid-19, e della conseguente situazione di difficoltà economico-finanziaria in cui è venuto a trovarsi, l'obbligazione di pagamento del canone è divenuta impossibile (attenzione al peso delle parole: si parla di impossibilità)?
In realtà, tale tesi appare difficilmente sostenibile, anche alla luce del principio di responsabilità patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c., secondo cui il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Diventerebbe assai difficile accertare e provare - per tutte le migliaia di rapporti potenzialmente affetti dal problema - una tale "impossibilità", in quanto non necessariamente una riduzione o anche la mancanza di entrate provenienti dall'attività soggetta a temporanea chiusura precludono il pagamento del canone. Bisognerebbe indagare la concreta situazione di reale (non supposto o dichiarata) difficoltà economico-finanziaria del conduttore, indagine che certo non può essere condotta in astratto, ma richiederebbe approfondita analisi del caso concreto. Peraltro, una situazione di incapacità del conduttore/imprenditore di far fronte alle proprie obbligazioni evoca subito il concetto di insolvenza di cui all'art. [[n5fall]] legge fallimentare, il che apre scenari ancora più complessi.

Indaghiamo ora un'altra norma del codice civile. L'art. 1467 c.c., che stabilisce:

"Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall'articolo 1458.
La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto.
La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto"


Dunque, la risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto. E qui si pone il problema di stabilire se un evento che non ha precedenti nella nostra storia recente - l'epidemia di Covid-19 con tutte e misure restrittive alla libertà di movimento e di iniziativa economica - possa considerarsi compreso nel normale rischio connesso al contratto. Ovviamente la risposta a questa domanda rischia di essere "faziosa".
In ogni caso, anche si volesse dare risposta affermativa, la “scappatoia” offerta alla parte la cui prestazione è divenuta troppo gravosa è unicamente lo scioglimento del vincolo contrattuale, che però potrebbe risultare addirittura controproducente, trattandosi di immobili ad uso commerciale. Che ne sarebbe, infatti, dell'avviamento?
In ogni caso, decidesse anche il conduttore di andare per questa strada (ora mi libero e sto sereno, poi in futuro vedrò), uno strumento di "resistenza" per il locatore è offerto dall’ultimo comma della norma, ai sensi del quale la parte contro la quale è domandata la risoluzione (dunque il locatore) può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.
Si tratta della soluzione probabilmente più ragionevole. Una rinegoziazione - magari di durata transitoria - del canone offre l’opportunità di evitare le incertezze, le lungaggini e le spese connesse ad un contenzioso.
Naturalmente, il tutto è rimesso alla buona volontà (“può evitarla”) delle parti.

Un ruolo importante in questo senso può essere svolto dal richiamo al principio della buona fede nell’esecuzione del contratto, di cui all’art. 1375 c.c.

"Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede"

Da ultimo - ma non in ordine di importanza - occorre considerare che l’art. del D.L. 17/03/2020, n. 18 (c.d. “cura Italia”), ha espressamente introdotto un “credito d'imposta per botteghe e negozi”, al dichiarato “fine di contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19”. Il credito d’imposta è riconosciuto per l'anno 2020 ai soggetti esercenti attività d'impresa, “nella misura del 60 per cento dell'ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1” (ossia appunto botteghe e negozi).
Si tratta di una indicazione piuttosto chiara dell’intenzione del legislatore di escludere la legittimità di eventuali “autosospensioni” o “autoriduzioni” dei canoni di locazione, che potrà costituire un ulteriore criterio interpretativo utilizzabile dal giudice in eventuali futuri giudizi.
Si invitano, pertanto, i conduttori, ad agire con estrema prudenza. Sempre meglio cercare il dialogo con il proprietario, palesando le oggettive difficoltà del momento e cercando di trovare un accordo amichevole.

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