La Corte di Cassazione, di recente, ha avuto occasione di pronunciarsi in merito all’applicazione di questa norma, con la sentenza n. 47079/2019.
Il vicenda in questione concerneva il noto caso dei bulli di Manduria, sottoposti a custodia cautelare per il reato di tortura perché accusati di violenze e vessazioni nei confronti di un pensionato che si trovava in condizioni di minorata difesa, le condotte dei quali avevano, secondo l’accusa, portato alla sua morte.
La difesa contestava l’applicazione del reato di cui all’articolo 613-bis c.p. per assenza degli elementi tipici.
La Suprema Corte ha innanzitutto rilevato che, coerentemente con quanto stabilito dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, anche il legislatore italiano aveva scelto di identificare il reato di tortura come un reato a fattispecie comune, e dunque configurabile sia se posto in essere da soggetti pubblici che da privati.
Per quanto riguarda l’interpretazione dell’aggettivo “gravi”, la Corte si è interrogata se esso debba intendersi riferito alle violenze o alle sole minacce, dal momento che non emerge una soluzione chiara dai lavori preparatori della legge. La soluzione accolta è stata quella di intenderlo riferito a entrambe, in quanto logicamente sarebbe difficile ricondurre le acute sofferenze e i verificabili traumi a violenze non gravi.
È stato poi evidenziato che le azioni di violenza e vessazione sono idonee ad integrare il reato se le condotte sono plurime o se consistono in un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Dunque, se per configurare il reato di tortura è necessario che le violenze o le minacce siano realizzate a più riprese, oppure che queste siano commesse con più condotte in un determinato arco temporale, può dirsi che i reiterati fatti violenti e vessatori di Manduria consistano in atti di tortura.